La prima pagina del Corriere del 13 marzo dedica alla cosiddetta  “gaffe” della presidente della BCE, Christine Lagarde, uno spazio assai più contenuto di quello di altri quotidiani nazionali, a ulteriore conferma della sua linea Europa uber alles. Tuttavia, dal momento che l’uscita della cinica rappresentante degli interessi della finanza globale è stata di portata tale da suscitare, oltre a pesanti effetti depressivi sulle borse, reazioni stizzite persino da parte del tremebondo Mazzarella e del dirigente della Confindustria Lombardia, Marco Bonometti, il quotidiano milanese non ha potuto esimersi dal dedicare due pagine (la 8 e la 9) alla scandalosa battuta della segaligna Lagarde (“Non siamo qui per chiudere gli spread”). Così come ha indotto il pur inossidabile europeista Federico Fubini – nel taglio basso di pagina 8 – a farsi scappare alcune verità ormai troppo evidenti per essere ignorate.

Non si è trattato di una gaffe, spiega Fubini, bensì dell’imbarazzante ammissione di quali interessi guidino certe scelte: non a caso quelle parole ricalcano alla lettera una frase di Isabel Schnabel, rappresentante tedesca nel comitato Bce; non impreparazione o lapsus dunque, bensì rigorosa applicazione dei dettami della Bundesbank. La battuta in questione rivela l’auspicio che l’Italia, in odore di recessione a causa dell’epidemia, sia prima o poi obbligata a chiedere un “salvataggio” dalla Ue, avviandosi a subire il destino della Grecia (anche se questo, naturalmente, Fubini si astiene dall’esplicitarlo). Mentre la stizza della Confindustria è un sintomo evidente della paura che la Germania (e in misura minore la Francia) colgano l’occasione per arraffare altre fette del nostro apparato produttivo e dei nostri mercati, riducendo definitivamente l’Italia allo status di semicolonia degli “imperi centrali” (a tale proposito ricordo che il direttore del Sole24Ore, qualche giorno fa, si è spinto ad affermare che se l’Europa insiste a comportarsi in un certo modo, “è giusto che l’Italia vada per conto suo”).

Ma dato che il Corriere, ancorché imbarazzato, non può smentire di punto in bianco la propria fede nel rigore teutonico in materia di spesa pubblica, ecco che, nello stesso numero, pubblica un fondo dell’ayatollah neoliberista Mario Monti, il quale, oltre a lanciare la proposta di istituire dei “buoni per la salute pubblica” (in altre parole: come affidare la soluzione dei problemi creati dalla pandemia alla mano salvifica dei mercati evitando di “pesare” sul bilancio pubblico), ribadisce che gli altri Paesi europei per quanto disposti ad accettare che la salute pubblica ha una priorità superiore, non sembrano pronti a “gettare alle ortiche i principi di una sana politica di bilancio (come tanti italiani farebbero senza alcuna preoccupazione se non ci fossero le regole europee e le pressioni dei mercati…)”. Traduco: certo ci aiuteranno, ma poi non mancheranno di presentarci il conto. 

Nelle ore successive al casino scatenato dall’improvvida dichiarazione della “comare secca”, come qualcuno la definisce, sono piovute smentite e rettifiche della stessa Lagarde, della Merkel e della von der Leyen (mai tante donne ai posti di comando, per la gioia delle femministe “emancipazioniste” e per lo smacco delle profezie secondo cui la femminilizzazione delle istituzioni implicherebbe di per sé un cambiamento delle ferree leggi del potere). Ma mentre l’ipocrisia di tali smentite può rassicurare solo i gonzi, a dipingere la gravità del momento sono le ammissioni a mezza bocca – ancorché “corrette” da professioni di fede – dell’organo ufficiale della borghesia italiana descritte poco sopra, nella misura in cui confermano il carattere dirompente di una crisi che promette di essere più devastante di quella del 2008.  

Infatti una cosa è la rabbia dei milioni di cittadini occidentali costretti a pagare di tasca propria le criminali speculazioni delle banche “troppo grandi per essere lasciate fallire”; altra cosa è il vedersi esposti alla minaccia di una pandemia che rischia di riesumare memorie di quella Spagnola che nel 1918 fece milioni di morti, e soprattutto altra cosa è vedersi costretti a prendere atto che decenni di privatizzazioni e di tagli alla spesa pubblica che hanno colpito con particolare ferocia le strutture e la forza lavoro (oggi ipocritamente santificata) del sistema sanitario. Il Coronavirus potrebbe essere il più potente strumento che la storia abbia generato, da un secolo a questa parte, per delegittimare la narrazione neoliberista, mettendo a nudo il volto più nero di una globalizzazione che, mentre da un lato “mette in comune” virus, disastri ambientali, milioni di lavoratori senza diritti sradicati dai loro luoghi nativi, immiserimento delle classi subalterne, dall’altro lato rinchiude nei recinti di minoranze privilegiate poderose risorse economiche e le armi politiche, tecnologiche e mediatiche per proteggerne il possesso.

Tutti hanno potuto misurare la distanza fra il modo in cui la minaccia è stata affrontata ai due estremi del pianeta. Forse la Cina non è più un Paese socialista nel senso tradizionale del termine (che comunque richiederebbe un radicale aggiornamento alla luce del nuovo contesto storico), ma certamente è un Paese in cui permane un formidabile sistema produttivo pubblico e in cui banche e servizi sociali fondamentali restano saldamente sotto il controllo dello Stato, ed è un Paese in cui anche le forze di mercato, ancorché in costante e tumultuosa crescita, vengono incanalate e indirizzate verso obiettivi ispirati agli interessi nazionali e della maggioranza della popolazione. Questo sistema si è rivelato di grande efficienza nel far fronte alla minaccia del virus riuscendo a controllarne i ritmi di diffusione in meno di due mesi. Qui in Italia si è preso atto con ritardo (e non senza dover superare forti resistenze dettate dalle preoccupazioni di ledere interessi economici, ovviamente spacciate per preoccupazioni di non limitare le libertà individuali) che per salvare le vite dei cittadini occorreva rallentare o addirittura bloccare tutte le attività e i comportamenti che le esponevano a gravi rischi. E mentre scrivo nessuno degli altri Paesi occidentali ha ancora assunto provvedimenti paragonabili a quelli che l’Italia si è vista costretta ad applicare da qualche giorno (un ritardo che costerà loro, inevitabilmente, migliaia di vite umane). 

Da un lato, un’economia programmata che disponeva delle informazioni e dei mezzi  di comando e controllo indispensabili per agire tempestivamente mettendo al primo posto la salute dei cittadini.

Dall’altro lato, un’economia anarchica governata dagli interessi privati dei grandi gruppi finanziari e industriali, una società che decenni di lavaggio del cervello hanno disintegrato in una miriade di atomi individuali, incapaci di concepirsi come comunità e di riconoscere il bene comune, in cui la propaganda delle élite dominanti hanno demonizzato tutto ciò che riguarda lo Stato (per tacere di ogni idea che evochi lo spetto del socialismo). Un sistema economico e sociale che trova la sua massima espressione in quell’Unione europea che, dopo avere blaterato contro la minaccia sovranista, getta la maschera lesinandoci gli aiuti (o facendoci capire che li avremo solo pagandoli a caro prezzo) nel momento di massimo pericolo (persino aiuti immediati ed essenziali come mascherine e respiratori ci sono giunti dalla Cina piuttosto che dagli “amici” europei).

Quando usciremo dall’emergenza nulla sarà come prima. In particolare la gente, di fronte a temi come i nuovi vincoli comunitari che ci piomberanno addosso con il Mes, alle rivendicazioni di ulteriori autonomie regionali (mentre la crisi ci ha insegnato quali disastri genera il mancato coordinamento fra Stato e regioni), all’esigenza di ridisegnare il sistema sanitario dopo lo sconcio che ha subito a causa di tagli e privatizzazioni (e più in generale alla necessità di ripensare dalle radici il ruolo dello Stato nel governo dell’economia e delle relazioni sociali), di fronte a tutto ciò, sarà probabilmente più ricettiva nei confronti dei discorsi delle forze politiche che rivendicano la sovranità nazionale, democratica e monetaria del nostro Paese, così come sarà più ricettiva nei confronti di chi invita (come sta facendo Sanders negli Stati Uniti) a riconsiderare la possibilità che un socialismo del XXI secolo possa rappresentare un’alternativa, al tempo stesso auspicabile e necessaria, al regime neoliberista, un’alternativa in grado di restituire a tutti sicurezza, una vita dignitosa e la speranza di un futuro accettabile.  

Gli scioperi spontanei indetti negli ultimi giorni dai lavoratori che rifiutano il ruolo di “carne da cannone”, da sacrificare sull’altare di una produzione incapace di offrire loro condizioni minime di sicurezza, sono forse un primo segno di risveglio delle nostre classi subalterne, i semi di una coscienza embrionale che potrebbe crescere fino a tradursi in rifiuto  di nuovi tagli alla spesa pubblica (e non solo a quella sanitaria) delle privatizzazioni, del separatismo dei ricchi predicato da alcuni governi regionali, e della svendita degli interessi nazionali sull’altare di un’Europa a conduzione franco-tedesca priva di ogni legittimazione democratica.

Per compiere questo salto, occorrerà tuttavia far nascere un nuovo soggetto politico capace di rappresentare gli interessi dei molti contro quelli di infime minoranze, e di costruire un programma di transizione verso un nuovo sistema economico, politico e sociale. Nuova Direzione intende dare il proprio contributo a tale impresa, senza indulgere a chiusure settarie ma dedicandosi senza riserve al tentativo di unificare tutte le forze che ne condividono gli obiettivi di fondo.   

Post Scriptum. Mentre mi appresto a pubblicare questo pezzo, apprendo che il ministro delle Finanze della Germania si appresterebbe a varare un aiuto di centinaia di miliardi a sostegno delle imprese tedesche (mentre qui si litiga per sforare il meno possibile sui vincoli di bilancio). Le campane a morto per il sistema di regole della Ue suonano sempre più forti (e non è escluso che in un futuro non troppo lontano annuncino la morte della stessa Ue).

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