LETTERE DALLA SPAGNA

Dalla rivista cuartopoder

Martedì, 24 Marzo 

“Credo in te, patria. Dico ciò

che ho visto: un fulmine

di rabbia, freddo amore e un coltello

che stride, tagliando pezzi

di pane: anche se oggi c’è solo ombra, ho visto

e ho creduto “

Blas de Otero, 1955

Niente sarà più lo stesso. Quello che ignoriamo è quando la crisi del coronavirus si fermerà e, soprattutto, i suoi costi morali, economici, sociali e politici. A mio avviso, la parola chiave è memoria, ricordare che è accaduto, da dove veniamo e, fare di questa memoria il fondamento di una proposta per un paese, di ciò che chiamiamo Spagna. 

Dobbiamo partire dalla crisi del 2008 e ricordare quelle cose che ripetiamo ancora oggi: riformare il capitalismo, l’inefficacia dell’Unione Europea, l’urgente necessità di un intervento statale, la promessa di un’equa distribuzione dei costi della crisi e che nessuno resterà inascoltato. Díaz Ferrán, presidente dell’associazione dei datori di lavoro lo aveva già detto drammaticamente: il mercato deve essere temporaneamente sospeso e le istituzioni devono intervenire immediatamente e radicalmente. Poi è arrivato quello che sappiamo.

Non partiamo da zero e conosciamo già alcune cose:

1) La nostra fragilità come specie; Ci siamo costruiti a partire da questa fragilità, strutturalmente inadeguati all’ambiente e privi di specializzazione; siamo una specie indigente che è costretta a costruire un “mondo” nel mondo, generando artefatti e costretta a una produzione ininterrotta. È una dinamica onnipresente e senza limiti; 

2) Siamo animali razionali e dipendenti. Non esistono libertà al di fuori della comunità e diritti al di fuori dello stato; siamo (inter) dipendenti per tutta la nostra vita come esseri umani (che cambia solo la nostra – relativa – autonomia); lo siamo nell’infanzia, nella giovinezza, da adulti e d anziani. La contraddizione più significativa è che il sistema (capitalista) non solo non riconosce queste basi della riproduzione sociale, ma vi si oppone radicalmente in base a una logica presieduta dalla mercificazione delle relazioni sociali. 

3) Non esiste economia senza Stato o settore privato al di fuori delle istituzioni pubbliche. Ciò emerge sempre nelle crisi rivelandoci che il capitalismo vive e affonda le sue radici nella riproduzione sociale e nella vita, e che le sfida periodicamente, per poi ricorrere urgentemente all’intervento di poteri pubblici.

4) Lo stato nazionale come fondazione. Possiamo compiere tutte le svolte che vogliamo ma, al momento della verità, restano solo lo stato nazionale e i suoi confini. Ci si vergogna di chi ne parla come se fosse un demiurgo totalizzante e totalitario; ciò che esiste è un sistema di stati ordinati gerarchicamente che istituzionalizzano un determinato sistema mondiale. Ci sono molti tipi di Stati secondo le loro relazioni con il capitalismo e secondo le modalità di integrazione nell’economia mondiale.

Memoria, sì, memoria. Lo ascolto e lo comprendo: il sogno europeo ha segnato la nostra vita collettiva. Secoli di prostrazione, di decadenza, hanno generato un enorme complesso di inferiorità. Questa eredità è stata una costante. Il “treno” della modernità è stato perso ed è stata possibile solo la “modernizzazione”. Essere come loro, assomigliargli fuggire da una Spagna segnata da guerre civili, da una feroce oligarchia patrimoniale, da colpi di stato ricorrenti e dalla dittatura. 

Il governo di Felipe González ha significato tutto ciò: che, la fuga dalla Spagna, dalla sua storia, dalle sue tradizioni, la modernizzazione definitiva. L’Europa ci avrebbe salvato, finanziato e ci avrebbe aiutato a costruire lo stato sociale che non abbiamo mai avuto. Tutto ciò è divenuto senso comune e fondamento di un consenso sociale che dura ancora. Tenuto insieme con gli spilli? Sì, e tuttavia dura, soprattutto nella testa delle nostre élite politiche. 

L’amarezza con cui oggi si parla di Europa è molto simile a quella che abbiamo vissuto con le politiche di austerità. Si può dire che stiamo affrontando un nuovo fallimento dell’Europa e che, per cambiare la nostra società, è necessario partire dalla Spagna come stato nazionale. 

Le parole ingannano; essere o no europei non è una scelta, lo siamo o non lo siamo; Possiamo complicare il modello e parlare di varie Europa e di culture nazionali diverse e contraddittorie. Ma non stiamo parlando dell’Europa, ma dell’Unione Europea, che è qualcos’altro, a volte radicalmente diverso. 

L’ideologia europeista nasconde il fatto che si sta parlando, in modo concreto e specifico, dell’integrazione europea, della UE; cioè d’un insieme di istituzioni, organizzato dagli Stati attraverso trattati e che si è progressivamente configurato come un ordinamento giuridico egemonico di fronte alle costituzioni dei singoli Stati considerati. Quando si dice, ora come prima, che l’UE (attenzione, non l’Europa) non è all’altezza del compito, si sbaglia analisi e si dimentica la memoria storica.

L’UE non esiste per risolvere i problemi dei cittadini, né per aiutare gli Stati a gestire crisi economiche, pandemie o vari mali sociali. Così si chiede all’olmo di dare pere; cioè si fa dell’ideologia e non analisi dei reali rapporti di forza. L’UE nasce e si sviluppa per imporre una logica sociale basata sulle quattro libertà (libera circolazione di capitali, persone, beni e servizi) e sulla radicale opposizione al tipo di potere politico emerso dopo la seconda guerra mondiale; cioè allo Stato sociale e al costituzionalismo democratico e, assai al di là, a un conflitto di classe che ha reso ingovernabili le democrazie e che ha favorito un nuovo tipo di società, altre strutture di potere e relazioni personali basate sul controllo sociale del economia.

L’UE ha fatto bene il suo lavoro: ha depoliticizzato l’economia pubblica, omogeneizzato la classe politica, neutralizzato il conflitto sociale e costituzionalizzato il neoliberismo come l’orizzonte insormontabile del nostro tempo. Le sue istituzioni organizzano, disciplinano e danno coerenza alle diverse borghesie e attuano una serie di politiche liberali (ordo) che costruiscono il mercato e nuove relazioni tra società civile e politica. La democrazia come autogoverno scompare e viene sostituita da complesse procedure multilivello che consacrano il controllo dei poteri economici sugli Stati. Chiedere all’UE di aiutare i cittadini va bene come rivendicazione, ma vedremo presto che il “via libera” per salvare gli Stati, l’economia e, soprattutto, il capitale finanziario, presenterà il conto alle classi lavoratrici e ai cittadini.

Esistono due problemi intimamente connessi: la crisi del coronavirus e la necessità di ricostruire di un paese devastato economicamente, con gravi problemi sociali e moralmente senza orizzonte. I morti, i nostri morti, lasceranno il segno e le popolazioni non credo siano disposte a pagare i costi della pandemia e, soprattutto, di tutte le misure economiche che verranno messe in pratica. Ora siamo tutti buoni e ci amiamo moltissimo; venirne fuori in un modo o nell’altro e respirare. 

Tuttavia, il conflitto sociale continuerà e le potenze si sposteranno per guidare i paesi senza un nord, con le élite senza un progetto e con l’insicurezza come orizzonte. Per dirla in un altro modo, le società cambieranno molto. Questo è inevitabile; la direzione del cambiamento dipenderà dai rapporti di forza, dall’esistenza di un soggetto popolare e dalla sua capacità di definire un progetto alternativo di Paese.

Va detto chiaramente che stiamo affrontando una situazione di emergenza sanitaria, economica, finanziaria e sociale di dimensioni sconosciute. Si è parlato più e più volte di economia di guerra, ma si dimentica la cosa fondamentale, che questo implica la soppressione, più o meno temporanea, del mercato e una pianificazione imperativa della vita economica e pubblica. Tutto ciò che è possibile e necessario deve essere fatto per uscire da una pandemia che sta uccidendo migliaia di persone e mettendone molte altre a rischio. Ora, il tipo di uscita da questa crisi segnerà il tipo di ripresa e ricostruzione sociale nel paese. I neoliberisti ne sanno molto; nel 2008 hanno nuovamente usato la crisi come mezzo per imporre le loro politiche,  i loro tagli sociali e dei diritti e per subordinare le classi lavoratrici alla logica implacabile del potere imprenditoriale. Questo è ciò che occorre capire ora per non lasciarsi ingannare dall’idea di un ambiente in cui i conflitti di classe scompaiono, le contraddizioni sociali vengono offuscate assieme alle disuguaglianze in termini di reddito e potere. Il tempo giudicherà le misure che si prendono oggi e verranno prese nel prossimo futuro in base a una logica, ciò dev’essere chiaramente compreso, segnata dall’urgenza, dalla necessità e dallo Stato di eccezione.

Il titolo di questo articolo mi incute una certa paura: ricostruzione nazionale e sociale. Penso che non ce ne siano altri e, al tempo stesso, che debbano essere risolti i rapporti della sinistra con la Spagna. Non si tratta solo di contrastare l’egemonia della destra e delle sue varie varianti associate al populismo; c’è ben altro: si tratta di costruire un blocco sociale storico con una volontà di alternativa e di governo, avendo come asse un nuovo progetto di Paese: una Spagna alternativa. 

Non sarà facile e, ad alcuni, suonerà utopistico. Il realismo dei “realisti” è già stato divorato da questa crisi e ora è necessario improvvisare atterrando sulla realtà che la normalità occultava. Le proposte alternative sono nella società, nell’immaginario collettivo e nella memoria del 15M.

In questo momento, si tratta di prendere nota della situazione con occhi puliti; di non lasciarsi ingannare da una congiuntura segnata dalla paura e dall’insicurezza e di proporre un progetto affidabile, possibile di ricostruzione nazionale, economica, eco femminista e socialmente avanzato.

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