di Nuova Direzione
1) Premessa
L’epidemia di Covid-19, che ha investito l’intero pianeta ha costretto al blocco o a un fortissimo rallentamento tutte le economie occidentali, rappresenta un tornante storico che determina un “prima” ed un “dopo”. Una nuova fase sta avanzando con rapidità assolutamente imprevedibile e con pari incertezza. Una nuova fase esige di aggiornare le parole d’ordine.
Il presente testo rappresenta il contributo che Nuova Direzione propone alla discussione collettiva per la costruzione di una piattaforma di ispirazione socialista ed in grado di coniugare una prospettiva di difesa della indipendenza e sovranità democratica e nazionale con un chiaro orientamento egemonico imperniato su un blocco sociale coerente con questa. Sono necessarie per la fase chiarezza teorica e programmatica, da una parte, e la massima convergenza di forze e d’azione possibile, dall’altra. Ma la prima istanza, senza visione non c’è azione coerente, implica che l’eventuale soggetto, pur potendo allearsi tatticamente anche con forze diverse, dovrà avere una chiara e coerente linea politica. A questo fine le proposizioni che seguono.
La nostra economia non va riavviata, né rimessa in piedi, ma interamente “reimpostata”, ri-organizzata.
A questo fine dobbiamo fare un breve passo indietro per allargare lo sguardo.
2) Dove siamo
Gli sviluppi politici promossi nell’era neoliberale, e specificamente nella sua fase di più accentuata globalizzazione economica, a partire dagli anni ’90, hanno avuto come esito una radicale depoliticizzazione della popolazione. I corpi intermedi, partiti e sindacati, hanno perduto presa e ruolo. L’individualismo di massa si è imposto come paradigma relazionale. Tuttavia questo processo politico ed ideologico ha iniziato ad entrare in crisi con l’accentuazione della forbice reddituale tra abbienti e non abbienti, e poi con l’impoverimento di parte dei ceti medi a partire dalla crisi del 2008.
In Italia, alcuni strati sociali privilegiati, che esprimono un immaginario politico ‘di sinistra’ (istituzionale, ma anche ‘radicale’), hanno resistito, arretrando, mentre altri hanno ripiegato su una forma di ribellismo individualista, inconsapevole frutto dell’anarcoindividualismo liberale. Questo è stato il destino in particolare di quegli ex ceti medi scolarizzati che si sono raggruppati nell’M5S, che hanno alimentato esaltando forme ancora più estreme di disintermediazione, di rifiuto della politica e della sua socialità, e di “leggerezza”. Costoro si avvalgono della cassetta degli attrezzi forgiata dal primo populismo anni novanta: narrativismo, comunicazionismo, flessibilità ideologica.
Questo modello può essere utile nelle fasi di continuità del potere, quando si tratta di candidarsi a una gestione “onesta” del business as usual (cambiandone solo le narrative), ma non serve a nulla nelle fasi di ristrutturazione, quando le decisioni da prendere servono ad indicare una nuova direzione. In queste fasi le scorciatoie leaderistiche, comunicazioniste o elettoralistiche non portano da nessuna parte.
La costruzione di una vera alternativa non può che avvenire sia dall’alto con l’impegno a lavorare con urgenza a una nuova soggettività politica, sia dal basso, con l’altrettanto urgente riattivazione di un vasto conflitto sociale.
Non c’è altra via se non il lavoro determinato e paziente di creazione di soggettività e comunità politiche che esprimano una nuova visione del mondo. Servono un lavoro sistematico di interpretazione e di rottura, l’azione concreta sui territori, l’immersione nelle controversie del proprio tempo, la fatica del dialogo con i diversi e con i vicini. La fatica della proposta, dello scontro, dell’agitazione.
3) L’identificazione del nemico
La questione principale è la definizione corretta del nemico. Nemico in questa fase non è semplicemente l’Europa. Un’identificazione così semplicistica può portare a gravi errori di linea politica, ad un allineamento subalterno a un antagonismo antieuropeo di pura marca nazionalista.
Nemico è il progetto ordo-liberista e imperiale europeo, mosso ed ispirato anche da consistenti élite nazionali, che perseguono l’abbattimento delle condizioni sociali di milioni di lavoratori. Questo progetto in ogni crisi vede sempre l’occasione di approfondire e far avanzare quell’obbiettivo. È successo dopo la crisi 2008-09, dichiarata superata quando era appena finita la fase di caduta. In quell’occasione sono state imposte condizioni di austerità che hanno danneggiato tutti, anche i lavoratori dei paesi del Nord Europa, ma che nei paesi del Sud-Europa hanno provocato autentico immiserimento: dalla Spagna alla Grecia passando per l’Italia, unico paese a non aver ancora recuperato il livello del PIL pre-crisi.
Questo progetto ha come solo limite il coinvolgimento estensivo di cittadini di reddito medio o medio-basso, che, se porta alla crisi un intero sistema-paese, può chiamare alla protesta anche parte dei ceti dirigenti. Il progetto imperiale tuttavia ha una sua tenacia. Lo si è visto nell’applicazione del MES alla Grecia, con la sottrazione al paese sia della gestione che della proprietà dei propri asset: reti di trasporto, energia, telefonia, campioni industriali nazionali, costruiti in decenni di lavoro dell’intera popolazione e che definiscono le condizioni delle possibilità di vita decorosa, rendendo il paese di fatto un’‘espressione geografica’. È stato questo progetto imperiale a provocare il distacco della Gran Bretagna. È stata l’adesione a questo progetto a portare alla quasi cancellazione dei due partiti portanti della quinta Repubblica francese: il PSF ridotto a dimensioni marginali, e l’alleanza subalterna del partito di origine gollista con Macron. Tutto per mantenere la presenza francese nell’asse di governo del progetto imperiale europeo.
Anche in Italia la rigidità del progetto imperiale europeo, persino di fronte all’incombente catastrofe sanitaria ed economica, ha provocato fibrillazioni inedite nei gruppi dirigenti tradizionalmente europeisti (si pensi al doppio intervento di un Mattarella, guardiano dell’ortodossia europeista) e una crisi profonda dell’europeismo di norma coltivato presso l’opinione pubblica. Ma le fibrillazioni non sono mutamenti di rotta, che non si vedono né nella tecnocrazia del Ministero delle Finanze, né in Confindustria, né, come prevedibile, tra le forze politiche di riferimento dell’europeismo, come il PD. Non bisogna neppure sopravvalutare il radicamento dell’opzione anti-europea nell’opinione pubblica. Rispetto all’attuale scollamento verso l’UE, noi dobbiamo essere un passo avanti, tenendo ferma la necessità di difendere le sezioni della società in maggiore difficoltà, ma anche orientandone la protesta in modo che riconosca le ragioni di lungo periodo delle difficoltà presenti.
La strategia ordoliberista sembra promuovere contingentemente una convergenza tra interesse nazionale e interesse di classe, per frazioni rilevanti delle classi intermedie come anche delle classi lavoratrici e popolari. Convergenza non vuol però dire identità. La base degli interessi resta fondamentalmente divergente e la composizione complessa. In questo contesto dobbiamo batterci per segnalare il pericolo che sirene meramente nazionaliste vengano utilizzate per perpetuare i tradizionali rapporti di sfruttamento nel nome di uno ‘sforzo comune’ che finisce per essere rapidamente distribuito in modo inversamente proporzionale al potere contrattuale dei soggetti.
La parola d’ordine che dovremmo dunque affermare nel dibattito è “Ri-Organizzazione”. La nostra economia non va “ricostruita”, neppure su linee di maggiore capacità competitiva e/o autonomia, ma va “Ri-organizzata”, perché completamente sbilanciata, fondata sullo sfruttamento, sulla gerarchizzazione e su un competitivismo tanto esasperato quanto infruttuoso. Per fare questo bisogna individuare, obiettivi intermedi e finali, strumenti necessari e passaggi obbligati.
4) Cinque proposizioni:
- L’indipendenza passa per l’autodeterminazione democratica. Non c’è vera democrazia senza un’effettiva neutralizzazione della capacità del potere economico di tradursi in potere politico. Il potere politico deve essere originario e rispondente all’interesse pubblico. Ciò implica il recupero della piena centralità del Parlamento e l’attivazione di forme di partecipazione decentrata.
- Lo stato nazionale è l’arena politica primaria, dove le diverse forze che compongono la nazione possono organizzare il conflitto politico. È il conflitto politico tra le forze organizzate dei cittadini, del lavoro, delle diverse soggettività presenti e le istanze dell’economico e dei suoi agenti a dover generare l’iniziativa politica. Nessuna struttura sovranazionale, necessariamente ulteriore e subordinata al livello democratico nazionale, può neutralizzare la priorità di questa arena.
- Lo scopo della forma politica che ci si dà non è la competizione. La logica dello sfruttamento che connette dominanti e subalterni nella ‘famiglia’ europea non può essere riprodotta da un’Italia che si liberi infine del servaggio volontario assunto negli ultimi trent’anni. Il paese deve superare la logica dello sviluppo ineguale, che consente di alzare qualcuno solo spingendo altri verso il basso. Unica forma di relazione internazionale coerente con la costituzione repubblicana è quella fondata sulla libera cooperazione tra pari.
Ciò che conta è il mutuo riconoscimento delle identità storiche e delle differenze tra i diversi ordinamenti istituzionali. La subalternità ad un occidente che non riesce a liberarsi del fallimentare modello neoliberale può essere superata solo se si istituiscono relazioni eque con il mondo emergente, valorizzando la nostra collocazione nel mediterraneo. La collocazione geopolitica del paese è tema di assoluta rilevanza strategica, giacché il nostro paese è sempre più al centro del gioco egemonico mondiale, nello scontro tra gli hard power e i soft power dei due blocchi in (ambigua) formazione, quello anglofono da un lato e quello cinorusso dall’altro. L’Unione europea, che nella guida ‘carolingia’ si immaginava come terzo impero, diventa, per l’assoluta incapacità di proiezione egemonica degli stati del nord, mero spazio di contesa. Questo crocevia della storia ci deve spingere verso una posizione di non allineamento, capace di una politica estera flessibile che miri da un lato a liberarsi dalla subordinazione carolingia, che sta distruggendo il paese e in particolare le sue classi subalterne, e dall’altro verso un aumento della coesione euromediterranea.
- La ridefinizione del progresso deve avvenire come armonia e crescita democratica, capacità storica di trovarne una sintesi tra partecipazione ed emancipazione, diritto all’autodeterminazione individuale e collettiva, rifiutando l’idea di progresso come crescita di potenza di contro ad altre nazioni, altri uomini o alla natura. Questa crisi non va trattata come un problema di ordine sanitario e, surrettiziamente, come un problema di ordine pubblico. La cosiddetta “fase 2” potrebbe essere la nuova arena di questa trasformazione, con l’uso intensivo di nuove tecnologie per il controllo e la raccolta di informazioni sia in vista di un’intensificazione dello sfruttamento del lavoro sia di un controllo sociale pervasivo e diffuso; tutto ciò non è privo di rischi in una cornice dove saperi ‘esperti’ di tipo ingegneristico-sanitario e manageriale sono chiamati a decidere su temi cruciali della vita e del lavoro, in assenza di controlli democratici e di pubblica discussione. Tutto ciò sarà proposto come necessità e modernizzazione, dunque come progresso; ma va posta invece la questione di cosa, come e per chi produrre (e vivere).
- Bisogna affermare l’interconnessione tra interesse di classe e interesse nazionale, attraverso il costante potenziamento del mercato interno, ottenuto tramite il progressivo e costante incremento della quota salari e del costo del lavoro, la riduzione della dipendenza dalle esportazioni (ed importazioni), l’accorciamento delle catene del valore industriali. Occorre definire qual è l’interesse di classe che si ha di mira, che oggi non può che identificarsi con gruppi e comunità periferiche, incapaci di disporre delle leve di potere e capitale per definire il proprio valore. Anche alla luce delle proposizioni precedenti, bisogna ribadire lo sforzo costante di assicurarsi un’effettiva indipendenza in forma di equilibrio multipolare, evitando lo schiacciamento su un atlantismo subalterno. L’Italia ha interesse al sorgere di un mondo multipolare con un nuovo equilibrio internazionale.
5) Passaggi
Un passaggio necessario è l’Italexit, ma non è il primo; è forse l’ultimo. La domanda centrale, dato che la prospettiva sta diventando di senso comune, è “uscire come e per fare cosa?”.
In ordine cronologico.
- Bisogna chiedersi nell’immediato come si sostiene il paese ed i suoi ceti ed aree più deboli, come si protegge la popolazione, come si riorganizza la produzione e la vita. Tutto questo richiede immediata liquidità e una discussione sulla riorganizzazione del paese dopo la seconda mondializzazione.
- Bisogna incrementare gli spazi di autonomia nazionale, ridefinendo le catene del valore, e mirando ad un’indipendenza alimentare, energetica, e produttiva. Da questa agenda scaturirà l’indipendenza finanziaria, e quella politica che ne sono il presupposto.
- Create le condizioni di cui sopra l’exit (per la quale bisogna comunque lavorare in ogni momento e che in ogni momento potrebbe divenire un obiettivo immediato) diventa naturale e si pone la questione della collocazione internazionale del paese.
Per arrivare all’exit bisogna, in altre parole, crearne i presupposti. Se la domanda è “uscire per fare cosa?”, la risposta deve unire concretezza, praticabilità ed ambizione strategica.
La vastità epocale della crisi in atto di un intero sistema mondo e di una lunga fase di civilizzazione richiede una massiva socializzazione, un “socialismo del XXI secolo”. La riproposizione di un orizzonte socialista è oggi possibile anche in ragione delle mutazioni culturali e antropologiche che la crisi – nelle sue dimensioni umane, relazionali e psicologiche – non potrà non indurre.
L’occasione è storica, l’efficienza dimostrata dal modello cinese e il soft power generato dal suo successo stanno infatti scalfendo le ideologie antistataliste e “orizzontaliste” del liberalismo progressista (basti pensare alla diffusa richiesta di ricentralizzare il sistema sanitario a livello nazionale che impatta sul dibattito relativo all’ulteriore ampiamento delle autonomie regionali).
6) Obiettivi intermedi e tendenziali
- Costruire una larga coalizione sociale da nord a sud definita intorno al lavoro, in grado di formare una rete di soggetti sociali, sensibili alle diseguaglianze orizzontali e verticali, tra periferie e centri;
- Esperire ogni plausibile possibilità di costruzione di un soggetto politico, compatibile con le presenti linee, lavorando sia sull’unificazione – attraverso un salto qualitativo – del mondo sovranista-costituzionale, sia sulle diverse forme di opposizione politica che potrebbero nascere dalla crisi degli schieramenti tradizionali;
- Riaffermare la centralità del parlamento e del controllo popolare su di questo, conformemente alla Costituzione.
- Incrementare il nostro spazio di movimento in politica estera;
- Liberarci dalla schiavitù del debito, e mirare perciò alla sovranità monetaria;
- Rivendicare la ricostruzione di un’impresa pubblica strategica;
- Potenziare direttamente l’occupazione pubblica, riaffermandone la centralità;
7) Strumenti da implementare (in vista degli obiettivi)
- La monetizzazione dei titoli pubblici in fasi come questa di acuta crisi contemporaneamente di domanda e di offerta;
- La garanzia del lavoro prestata in prima istanza dallo stato stesso che faccia da pavimento al salario minimo progressivamente crescente;
- La nazionalizzazione delle forniture di beni primari (acqua, grande distribuzione dell’energia, produzione di baseload, rifiuti), ai fini della creazione di una solida base pubblica dell’economia;
- La ristrutturazione del settore agroalimentare che favorisca le produzioni nazionali a chilometro zero, ridimensioni il ruolo della grande distribuzione, e si orienti verso il conseguimento della sovranità alimentare; la riconversione ecologica effettiva, e non trainata dal mercato; il potenziamento della ricerca pubblica e dei relativi investimenti;
- La programmazione dello sviluppo, e la pianificazione dei settori economici strategici, incluso ricerca e istruzione, riconoscendo la complementarietà tra la direzione pubblica e l’azione privata e finalizzata ad un radicale processo di riconversione produttiva (cosa, come, e per chi produrre);
- Il superamento della fase neoliberale delle “autorità indipendenti”;
- La riduzione e il controllo della movimentazione dei capitali, l’inibizione degli investimenti meramente finanziari e la lotta alla logica della rendita in tutte le sue forme (fondiaria ed urbana, finanziaria);
- Il controllo dei flussi di persone in funzione di un’effettiva capacità di accoglienza non subalterna né rivolta allo sfruttamento. Non può essere il mondo delle imprese e dei datori di lavoro privati a definire i fabbisogni perché la loro unica esigenza è la compressione del costo del lavoro;
- Un’autentica solidarietà internazionalista fra classi popolari, che implica il diritto all’unità e allo sviluppo integrale di ogni nazione in un mondo multipolare.
1 Recent Comments
06 Mag, 2020 at 12:27 AM |
Non tanto per aggiungere un punto alla “lista della spesa”, quanto perché lo ritengo rilevante nel quadro della descrizione generale.
Al punto 6 . secondo me sarebbe opportuno considerare una questione:
« favorire lo sviluppo della cooperazione nella iniziativa economica (specie nell’agricoltura, ma anche in altri settori manifatturieri), rivendicando il diritto al credito in presenza del solo “capitale – lavoro” e della capacità produttiva, in modo da permettere aggregazione sociale ed economica al di fuori delle logiche del capitale.
Grazie.