La proposta di Skidelsky per il Labour Party e il mercato del lavoro in Italia
Il tema della riduzione dell’orario di lavoro è diventato un dibattito politico molto acceso nell’ultimo periodo e ricco di proposte. Fra queste spicca per completezza di analisi e approccio innovativo quella elaborata da Skidelsky per il Labour Party. Vale la pena riprenderlo e commentarlo, aggiungendo alcune considerazioni relative alla situazione del mercato del lavoro in Italia.
I punti principali e più interessanti della sua proposta sono, a mio avviso, tre:
- Parte da un’analisi dell’economia attuale, riconoscendo in pieno che
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- la stagnazione è un problema inerente al mercato e il mercato non ha soluzioni ad essa
- il potere contrattuale del lavoro è spezzato e per ripristinarlo è impensabile riuscirci solo con azioni bottom-up, che sono certamente necessarie, ma vanno create istituzioni statali capaci di ricostituirlo
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- Propone il ruolo centrale dello Stato come datore di lavoro e investitore primario per implementare il progetto, basato su tre azioni: abolizione della disoccupazione, investimenti nel settore pubblico, uso della leva pubblica – appalti – per imporre condizioni al settore privato
- Il processo di automazione, se governato, porta a risultati positivi e altamente desiderabili
La proposta di Skidelsky è tecnicamente applicabile da subito in UK. Da noi, no.
Degno di nota è proprio questo suo approccio realistico, non fa proclami massimalisti dal momento che la riduzione dell’orario di lavoro non può essere realizzata per tutti nello stesso modo e calata dall’alto per decreto, ma va realizzata con misure che integrano, supportano l’economia e facilitano la transizione verso questo obiettivo1pone giustamente il problema dei lavoratori a paga bassa, dei lavoratori autonomi o precari, delle piccole imprese il cui il margine non è sufficiente ad assumere più lavoratori a meno ore, e dei lavoratori pubblici.
La radicalità, invece, è nel chiedere un avanzamento irrinunciabile, dal quale poi tutto può discendere: l’abolizione della disoccupazione.
La stagnazione e la produttività
Per alcuni economisti la stagnazione non è un problema di mancanza di produttività, ma piuttosto di un suo eccesso, siamo dannatamente produttivi. La causa sarebbe il problema di Domar, la crescita della domanda effettiva è più lenta dell’aumento di capacità produttiva dato dagli investimenti [il fatto che non c’è alcuna certezza che la domanda aggiuntiva creata dagli investimenti vada ad assorbire interamente la capacità aggiuntiva creata dall’investimento netto e cioè è altamente improbabile che la domanda aggregata cresca a velocità sufficiente da mantenere il capitale pienamente utilizzato]. Quindi prima di aumentare ancora la produttività – e quindi di introdurre innovazioni – va assicurato un ampliamento della domanda che la assorba. E in un contesto internazionale di austerità diffusa e protezionismo, è impensabile fare affidamento sulla domanda interna estera, bisogna puntare molto sulla domanda creata dal settore pubblico, facendo attenzione che non vada a sussidiare il capitale privato, aggiungo, come negli appalti per le grandi opere o nelle partnership pubblico-privato che sono un pozzo senza fondo e aumentano solo le rendite e la speculazione finanziaria, vere e proprie mangiatoie clientelari. Quindi è necessario puntare alla domanda creata in modo diretto, cioè aumentando il settore pubblico e implementando un piano di lavoro garantito.
Come scrivevano gli economisti Harold Vatter e John Walker nel 1997, in una politica fiscale ben condotta, la spesa dello Stato deve salire rapidamente quando gli investimenti salgono in modo tale da assorbire l’aumento di capacità produttiva, e ancora di più quando gli investimenti scendono in modo da impedire il collasso della domanda effettiva. La definiscono quindi come una “chiave a cricchetto” piuttosto che un mero intervento anticiclico, troppo riduttivo del ruolo che deve avere costantemente nell’economia, fino ad arrivare ad affermare che la partecipazione dello Stato nell’economia dovrebbe aumentare indefinitivamente“. Affermazione che riprende la famosa legge di Adolph Wagner, per il quale il settore pubblico deve crescere più velocemente del tasso di crescita economico. E’ stato fatto tutto il contrario e difatti abbiamo stagnazione e problema di Domar, in modo particolare se andiamo ad implementare innovazioni profonde del sistema produttivo quali industria 4.0, lean production, robotizzazione, information technology, automazioni varie.
In Europa i trattati vietano l’intervento pubblico diretto, deve sempre passare dai privati, dal mercato. Perfino la BEI e i suoi fondi strutturali possono essere dati solo alle aziende. Non possiamo stupirci che ci siamo ritrovati con una domanda interna devastata in tutta Europa, non solo in Italia. E’ l’ovvio risultato dell’economia di mercato, dove per “di mercato” intendo a guida del mercato. Un’economia in cui, anche se apparentemente ancora mista, il settore pubblico viene squalificato ad ancella del mercato, quando non viene ridotto a mero agente fra i tanti, e quindi le amministrazioni pubbliche, gli enti locali, entrano nella competizione di mercato (alcuni sono convinti che sia una buona soluzione, vedi autonomia differenziata).
Il mercato è distruzione, non sempre creativa. Distrugge posti di lavoro, distrugge salari, boicotta la produzione per fini speculativi, indirizza la domanda sull’offerta che vuole e può soddisfare. Non c’è nulla nel sistema attuale che garantisca che il capitale e il credito vadano a finanziare la produzione, l’economia reale, la creazione di posti di lavoro. Ci può essere crescita senza occupazione! E’ così da anni. La produzione comporta dei rischi, abbiamo visto come la maggior parte del capitale negli ultimi decenni sia stato ingaggiato in altre attività, per lo più finanziarie. I profitti sono stati elevatissimi. Ma la verità è che l’attività finanziaria crea bolle, un movimento frenetico che sposta milioni di asset finanziari, che poi esplodono. L’economia reale resta un deserto post-atomico.
Quindi la differenza sostanziale che va capita è tra economia e mercato e tra ricchezza reale e ricchezza finanziaria. Non coincidono e credere che le seconde (mercato e ricchezza finanziaria) producano e sostengano le prime (economia e ricchezza reale) è controfattuale, un non-sequitur. La ricchezza è il lavoro, la produzione di beni e servizi e non il contrario, beni e servizi per produrre ricchezza. La chiave per superare il capitalismo, che è la scelta di come cosa e perché produrre finalizzata alla massimizzazione di profitto monetario privato, è decidere cosa come e perché produrre, e come distribuire socialmente il lavoro e il suo prodotto, sia che questi processi coinvolgano il mercato oppure no (W.M. Dugger, 1966, From market allocation to social provisioning), nell’interesse pubblico collettivo, il cui fine è l’accrescimento del benessere, della prosperità e della sicurezza economica, non dell’accumulo capitalistico e del consumo opulento, insostenibile a livello ecologico, economico e sociale. Il fine di una società più giusta, con pari opportunità , in cui i bisogni di tutti siano pienamente soddisfatti – i bisogni, non i desideri! – il fine di una società socialista, dev’essere la prosperità per tutti, non il lusso e l’apoteosi del superfluo. Come diceva Stuart Chase, economista incredibilmente sottovalutato dalle sinistre, nel suo libro “A New Deal” del 1933 “il potere d’acquisto illimitato per una quantità infinita di sciocchezze e una valuta gestita in modo da sottoscrivere le richieste dei creditori in perpetuo, renderà solo peggiore l’esplosione finale. La terza via, se questa è davvero una via di sinistra, deve portare ad un territorio filosofico completamente nuovo, dove l’attività economica cessa di essere un gioco e lo stimolatore dell’ego, e diventa una cosa seria, che la comunità deve poter controllare in sua difesa. Le abitudini lavorative della popolazione non richiedono una grande cambiamento, è l’atteggiamento che deve cambiare completamente” E noi dobbiamo farci portatori di questo cambiamento, perché la sostenibilità economica è un problema molto più pressante di quanto si creda e non ha nulla a che fare con la sostenibilità finanziaria, tecnicamente illimitata per i governi. Le risorse reali, forza lavoro, materie prime, risorse naturali, sono finite e non possiamo sprecarle per i capricci di qualche megalomane narcisista, né per compiacere a regole e vincoli di bilancio assurdi. Dobbiamo tornare a fare cose utili. C’è qualcosa di profondamente sbagliato, disumano e contro natura, in questo sistema.
Lavorare tutti per lavorare meno
L’altro punto chiave che emerge in modo lampante in Skidelsky e su cui vorrei poi fare ulteriori riflessioni, è il ribaltamento totale della consequenzialità logica con cui affronta il tema della riduzione dell’orario di lavoro e cioè il classico slogan “lavorare meno per lavorare tutti” per arrivare a quello, che ritengo assolutamente più corretto, “lavorare tutti per lavorare meno”. Devono poter lavorare tutti, solo poi possiamo procedere a modifiche strutturali. Mentre non è praticabile l’altra via, che sarebbe una via di mercato, quella per cui riducendo l’orario le aziende sarebbero costrette ad assumere di più. Non funziona così. Con una domanda interna così debole, le aziende che lavorano con margini strettissimi non ce la faranno e dovranno chiudere o assumere a nero, alla faccia della riduzione d’orario. Si rischia di creare disoccupazione invece di nuova occupazione. E lo stesso meccanismo vale anche per i salari: alzare i salari non crea posti di lavoro (ci sono stati casi studio, per esempio in Florida) c’è troppo slack labour, gli italiani sono notoriamente gran risparmiatori, e aumenterebbe ancora di più la disuguaglianza tra lavoratori dei diversi settori, e anche tra lavoratori e disoccupati, mentre creare posti di lavoro alzerà anche i salari. Anche questo Skidelsky lo dice, il piano di lavoro garantito abolisce la disoccupazione, e va a istituire un salario minimo sotto il quale nessuno più accetterà di lavorare, mettendo al contempo in sicurezza l’economia, creando una domanda vasta e stabile a cui le aziende possono attingere per mantenere il profitto necessario a mantenersi.
Aggiungo una cosa importante. Senza l’implementazione di un programma di lavoro garantito che azzeri la disoccupazione involontaria, l’esercito di riserva, misure volte ad alzare i salari non favoriscono l’occupazione , ma diminuiscono lo sfruttamento e aumentano il potere contrattuale del lavoro, quindi è certamente una battaglia da fare, ma va condotta all’interno di una strategia più ampia. La lotta dev’essere per l’abolizione della disoccupazione. Altrimenti si rischia di destrutturare l’economia senza avere un’alternativa sostenibile, per cui presto il mercato troverà la sua soluzione. Come diceva Minsky “which is unsustainable, won’t be sustained” (cioè che non è sostenibile, non sarà sostenuto). Non c’è spazio di manovra se il mercato lo domina tutto. Bisogna strappare terreno al mercato, lo Stato deve tornare ad occuparlo.
La piena robotizzazione
Vale la pena spendere qualche riflessione sul tema della robotizzazione, croce e delizia delle forze progressiste.
Sui risultati poco entusiasmanti che avrebbe avuto la piena robotizzazione per i capitalisti aveva già discusso l’economista Joan Robinson. Sebbene sarebbe teoricamente estremamente vantaggioso, ridurre a zero il costo del lavoro, senza il contributo stabilizzante dei salari spesi nell’economia, il profitto deriverebbe esclusivamente dalla spesa dei capitalisti stessi, che per quanto riguarda i beni di consumo sarebbe per ovvie ragioni, di molto ridotta. La maggior parte sarebbe dunque il risultato di spesa in non-producibili (opere d’arte), beni immobiliari e asset finanziari. Dunque l’attività speculativa su questi sarebbe selvaggia e le fluttuazioni elevatissime. Troppo rischioso. Per rispondere a questo problema, il capitale ha messo in campo due strategie:
- la prima è una sorta di neo-feudalesimo – cioè l’appropriazione di beni e servizi indispensabili e di monopolio naturale (prima statali), quali strade, ferrovie e infrastrutture varie, utilities, servizi assistenziali e sanitari, facendo pagare tariffe, affitti e pedaggi; dove la clientela è sicura e il rischio di mercato molto ridotto
- la seconda è la proposta di reddito minimo di base, che permette di sbarazzarsi una volta per tutte della categoria sociale del lavoratore, per far emergere in modo incontrastato quella del consumatore, in particolare il consumatore di sussistenza, quello che non si fa troppe domande, che non rompe le scatole su cosa e come si produce, che cerca prezzi bassi e solo i gruppi multinazionali e la grande distribuzione organizzata possono offrirgli (il rapporto COOP del 2019, redatto da Nomisma, è stato chiarissimo su questo punto, il reddito di cittadinanza ha alzato i profitti della GDO a sud). Il lavoro perde dignità e la sua funzione sociale ed economica, come mezzo di partecipazione attiva, di realizzazione personale e comunitaria, di creazione di ricchezza reale (beni e servizi). Qualcun altro dovrà creare quei beni, spesso in luoghi lontani e sotto condizioni di sfruttamento indegne. La rendita, concetto chiave dello sfruttamento capitalista, viene sdoganato anche per le classi subalterne, inglobandole nella logica di mercato e togliendole alla lotta di classe antisistema.
L’altro fatto è che la robotizzazione non avviene finché c’è un bacino di lavoratori a bassissimo prezzo. Innovare, costa. Non sono ancora tante le aziende in Italia che stanno innovando in modo radicale la produzione. Molte utilizzano la flessibilità e i salari bassi che la legislazione consente. Nel Nord-Est, dove la retorica sul mondo dell’impresa raggiunge vette altissime, si sente spesso dire che aumentano i contratti a tempo indeterminato. E’ vero. Peccato che sono 1/7 del totale. I 6/7 sono contratti a tempo determinato, tra l’altro di periodo sempre più corto, 6 mesi, 3 mesi. Le aziende assumono continuamente, perché i contratti scadono, e come nel gioco delle sedie musicali, i lavoratori cambiano sedia, ma a livello aggregato l’occupazione sale col contagocce, e in modo non allineato alla ripresa dell’attività economica e dell’export. Adesso il decreto dignità sembra aver dato un fermo a queste dinamiche, ma resta ancora alta la percentuale di lavoratori precari.
Fra i fattori che, per certi versi sicuramente accelerano, per altri tuttavia, fermano i processi di innovazione, c’è anche la globalizzazione. Beni e servizi prodotti in paesi esteri, sia dell’unione europea che extraeuropei, dove le legislazioni sul lavoro, sull’ambiente e le agevolazioni fiscali, li rendono più competitivi. Il caso Arcelor Mittal credo sia esemplare. Quello stabilimento aveva bisogno di investimenti massici per essere rimodernato, ma all’azienda indo-francese non conviene, possono fare altrove la produzione, con profitti maggiori. Quello dell’Ilva è uno stabilimento con un potenziale enorme. A noi l’acciaio serve, ci serve in grandi quantità e con impatto ambientale minimo, come quello austriaco di Linz. Stiamo perdendo posti di lavoro e produzione per un problema di vincoli al bilancio.
Fatti i doverosi distinguo sull’eticità di alcune rivoluzioni tecnologiche, che andrebbero monitorate con più attenzione e impedite, eventualmente, personalmente ritengo che l’avanzamento tecnologico possa essere molto positivo se a guidare il processo d’innovazione c’è lo Stato e un controllo democratico. Le perdite di posti di lavoro possono essere compensate con la creazione di nuovi mercati, industrie pubbliche e certamente un programma di lavoro garantito che assicuri che la transizione ad un modello economico più ecologico e innovativo avvenga senza sacrificare i redditi dei lavoratori dislocati. Su questi principi è basato il Green New Deal proposto da Sanders, per esempio. Resta il nodo dei lavoratori iper-qualificati in settori che vengono sistematicamente boicottati dal mercato, con le delocalizzazioni, che può risolversi solo con un intervento diretto dello Stato, procedendo, a seconda del caso, con investimenti dedicati o anche espropri diretti, oppure con riconversioni da operare in collaborazione con le università o i distretti (in larga parte da ricostituire) o una nuova IRI. Come fece Mattei con il Pignone. Le delocalizzazioni sono un problema perché lo Stato è senza portafoglio e mancano le istituzioni economiche per intervenire.
E’ dunque evidente che il recupero della sovranità economica, monetaria e soprattutto politica, è fondamentale per avanzare qualsiasi proposta che riguardi la riduzione dell’orario di lavoro, l’aumento dei salari, la piena occupazione, un Green New deal per la riconversione ecologica, un piano industriale per il paese, l’ammodernamento delle infrastrutture, insomma tutto quello che ci serve per avere un’economia e una società più giusta, più moderna e più prospera. Senza, sono tutti sogni senza gambe.