55 miliardi, dicono. Poco meno del cumulo del costo degli interessi sul debito pubblico e circa la somma che si spende ogni anno per l’istruzione. Questo è l’importo totale del Decreto con il quale il governo Conte intende tamponare la caduta a picco del sistema economico italiano. Stime di Bankitalia danno il Pil italiano, 1.750 miliardi, in caduta del 5% nel primo trimestre e previsioni ottimiste lo danno al -9% entro la fine dell’anno. Si perderebbe valore aggiunto per 150 miliardi, almeno. Dentro questo arretramento la parte maggiore la dovrebbe fare la produzione industriale, della quale potremmo perderne un quarto, e l’export. In misura minore caleranno i consumi delle famiglie e l’occupazione. La dinamica dei prezzi dovrebbe essere debole sui prodotti energetici ed il prezzo dei servizi, con riduzione del reddito dei relativi lavoratori, in particolare autonomi, ma vedere una certa inflazione dei prezzi alimentari, con danno per i ceti più deboli. 

In queste condizioni, come sta accadendo un poco in tutto l’occidente, la nostra società si sta violentemente divaricando su molteplici linee di frattura

In primo luogo, tra coloro che sono connessi con le catene del valore in qualche modo, sia pure a diverso livello di centralità e valore aggiunto, e coloro che ne vivono al margine, impiegati in una insalata di lavoretti, di occasioni, espedienti, variamente visibili e variamente sommersi. I primi, i visibili, sono circa 25 milioni, solo 4 impegnati in attività manifatturiere e gli altri nel vastissimo e complesso mondo dei ‘servizi’. Qui si va dai 6 milioni di persone del commercio, i 5 milioni della Pubblica Amministrazione i 2,5 dei servizi di intrattenimento e 3,2 di attività professionali. I secondi sono stimati in circa 4 milioni di persone. Poi abbiamo i disoccupati effettivi, che dovrebbero essere 6 milioni. 

Un’altra linea di frattura si è aperta diagonalmente tra i settori a causa della distinzione, inedita, tra attività essenziali per continuare a funzionare come società avanzata e sacrificabili alle necessità del distanziamento fisico. È stata una frattura diagonale in quanto ha attraversato i 4 milioni impiegati in attività industriali, mettendone a casa, spesso con la cassa integrazione, una buona metà, molti servizi, gran parte del commercio, l’intero settore dell’intrattenimento, una buona parte delle attività professionali. Alcuni lavoratori hanno subito danni, altri no. 

Una terza linea, è ovvio, è aperta tra coloro che dispongono di scorte e riserve adeguate a superare senza danno alcuni mesi di ridotto o nullo reddito e coloro per i quali anche due settimane di interruzione rappresentano un ostacolo incolmabile. Oltre 5 milioni di famiglie, circa un quinto, hanno singole migliaia di euro disponibili, a volte centinaia. 

La tradizione divisione di classe, tra lavoratori salariati, lavoratori autonomi e gestori dei capitali, si è in questi ultimi venti anni enormemente articolata e complessificata, secondo molteplici linee. Divaricandosi almeno in posizioni intermedie, con amplissimi strati di lavoratori precari, intermittenti, ‘atipici’, deboli o debolissimi, esposti a qualunque turbolenza e senza alcuna rete. Inoltre, finti autonomi, persone che assommano tante piccole attività semi-professionali, hobbistiche, artigianali, quasi-commerciali, persino internazionali, pur di cumulare una qualche capacità di reddito, sempre esposta sull’orlo del baratro e sempre aperta alla speranza del ‘decollo’. Finte classi medie in aspettativa, spesso sovracculturate. Terzo, ci sono i piccolissimi capitali ed i loro solo provvisori gestori, incapsulati nelle nicchie locali più improbabili, dediti ad equilibrismi continui, costantemente ristrutturati e sempre affannosamente in cerca di ossigeno e credito da un sistema in costante restringimento, come una garrota. La stratificazione di segmenti di classe e di attività è, infine, scalata in una gerarchia di ambienti geografici declinante sull’asse tra centri metropolitani, mediamente più densi, attivi ed interconnessi, e quindi ricchi di opportunità, e aree periferiche, notevolmente più diradate, lente e povere.

Tutto questo mondo è stato portato sul bagnasciuga dall’emergenza sanitaria e dalle sue conseguenze e lì boccheggia. Ovviamente trema dalla rabbia, mal trattenuta, e minaccia vendetta in ogni possibile occasione. La rete internet, costantemente scandagliata dai potenti software in dotazione dei sistemi pubblici, e privati, incluso quelli della Protezione civile o del Ministero dell’Interno, trasuda di urla. Molto spesso di improbabilissime teorie del complotto. Di riprese di ogni e qualsiasi stravagante ipotesi avanzata da personaggi in cerca dei loro dieci minuti di fama a buon mercato, che se non riescono ad andare in televisione si cercano qualsiasi tribuna social possibile. Almeno dall’illuminismo, la figura dell’eroe intransigente e sorvegliante è altamente pagante. Chi si mette nelle vesti del censore intransigente appare splendente di luce e libero, gli occhi aperti sul governo pronto a carpirne la perversione. Certo, alla fine ne deriva una paradossale passività politica, in quanto il potere vilipeso e costantemente denunciato è trasfigurato in lontanissima fortezza, inaccessibile ed estranea. Tanto ci si può mobilitare per scoppi d’ira irrefrenabile, quanto, e facilmente, ripiombare in una rancorosa passività. È l’esatto contrario della premessa per una organizzazione stabile del contropotere. Ma chi non si organizza stabilmente, non si rappresenta, non esiste, e dunque sistematicamente perde. Accade da quaranta anni.

D’altra parte, sullo sfondo di questa rabbia, di questa minaccia dispersa e potenziale (anche se, a ben vedere, è solo minaccia di distacco ulteriore) si staglia l’assalto organizzato, condotto lungo linee corporative reciprocamente impermeabili, di tutte le fazioni dei perdenti. Dei ristoratori, dei commercianti, degli operatori turistici, dei professionisti, delle piccole imprese, delle grandi, delle banche, assicurazioni, del settore edile, … chiunque abbia la possibilità di mostrarsi come gruppo e di avere qualche organizzazione di riferimento e supporto. Assalto di chi ha più voce, chi ha organismi stabili, oliati e ben relazionati in grado di rappresentare (è il caso delle grandi imprese che si appoggiano sulla stentorea voce di Confindustria). Restano soli i muti, che sono distribuiti e sparpagliati. Scopertisi dal lato sbagliato delle fratture aperte, o spesso solo allargate, dalla crisi i veri deboli e periferici ruminano vendetta.

Questo è il motivo per il quale, dopo settimane di messe scalze a Bruxelles, senza alcun esito o effetto, di danze sacre intorno al totem della Bce (che altri dal grande Nord vorrebbero incendiare), e, soprattutto, dopo settimane di assedio delle diverse lobbies urlanti, il governo ha partorito il topolino.

Un provvedimento che non rilancia nulla e tampona poco. 

Mentre la crisi sanitaria apre la voragine delle divisioni di classe nel paese e getta sale su ferite da tempo infette, vengono appostati circa 15 miliardi di assistenza (ammortizzatori sociali, cassa integrazione per poche settimane, poco reddito di emergenza per pochi, una spolverata di bonus sparsi). I grandi capitali, avidi e avari, avrebbero voluto che tutto questo non ci fosse stato affatto. Nessun assistenzialismo “a pioggia”, che toglie risorse alla produzione, le loro alte grida. Non sono stati ascoltati, non del tutto; ma solo perché le orecchie elettroniche sono all’ascolto, e la rabbia trasuda da tutti i muri del paese. 

Quindi sono stati appostati altri 15 miliardi per le imprese. Le piccole ne hanno avuto due terzi, a fondo perduto se sotto i 5 milioni di fatturato (non sono dunque piccolissime). Le medie il resto, ma tagliando linearmente l’Irap. 

Poi, per le grandi, c’è la Cdp che dovrebbe erogare prestiti garantiti dallo Stato (e qui c’è lo scandalo della Fca e dei suoi soci, che chiedono garanzie di stato mentre i loro dividendi sono al sicuro all’estero nella generosa Olanda). 

Abbiamo, quindi, una spicciolata di investimenti, tra i quali 3,5 per la sanità (appena il 3% della spesa annuale ordinaria), e qualcosina per scuola e università. 

Un provvedimento che tampona appena le ferite dalle quali zampilla il sangue più rosso. 

Non basterà per trattenere la rabbia. 

Né basterà per trattenere la frana del modello di vita e lavoro che l’accelerazione dell’ultimo ventennio, con il decennio di ulteriore ristrutturazione che abbiamo appena vissuto, ci ha lasciato. Un modello nel quale la varietà di beni, la continua ricchezza stordente di nuovi dispositivi di intrattenimento e comunicazione, la vita frenetica, il luccicore delle vetrine, è stato pagato con costante ansia, consapevolezza di pericolo costante, obbligo di correre, di lavoretto in lavoretto, sommando relazioni frettolose, finte, piene di sospetto e di dolore. Questa improvvisata benda non servirà a trattenere la disintegrazione dell’intermedio, l’implosione dei lavori stabili e l’ulteriore affannosa disgregazione dei deboli, intermittenti, ultra-precari. Non servirà ad evitare che la crisi tolga l’acqua nella quale galleggiavano, a fatica, tutti i finti autonomi, i semi-professionisti da tempo proletarizzati (ma senza avere neppure l’apparente certezza di sopravvivenza del vero proletario, che non ha mezzi di produzione, ma è organicamente connesso ad essi, una categoria assediata in progressiva scomparsa e con sempre meno certezze), i finti hobbisti, i micro-commercianti, i tantissimi mediatori di questo e quello, … la finzione dell’essere classe media, nello status autopercepito anche se la tasca non lo conferma, non riuscirà più ad essere sostenuta. La garrota si stringerà ancora.

Non appena le finestre di grazia saranno rimosse (il premier ha già detto che un “anno bianco” fiscale non è sostenibile, non lo è in questa Europa), e finiranno divieti di licenziamento e casse integrazione in deroga, le 150 crisi aziendali già aperte cadranno come un muro di mattoni. Ilva, Whirlpool, Blutec, Wanbao, Jindal di Piombino, Embraco, Bekaert, … 250 mila lavoratori. E le scosse di questo muro ne faranno cadere altri, in un drammatico effetto domino. Dall’inizio della crisi del 2008 abbiamo perso il 25% della capacità industriale, questa volta potrebbe anche andare peggio. 

Mentre la crisi mostra in piena vista le nudità della struttura di classe del paese, e tutti corrono per salvarsi individualmente come tante formiche impazzite, una sola cosa davvero manca: il coraggio di mettere mano al capitalismo italiano. 

Mettere mano significa che non tutto si dovrà salvare, che lo stato dovrà fare due passi avanti e prendere il controllo di chi salva con il nostro denaro, che tutti dovranno essere salvati, ma molti dovranno cambiare lavoro. Che il lavoro stesso dovrà cambiare. Quel che c’era era orribile. 

Bisogna ripartire dalla programmazione, dal coraggio dell’indipendenza, dalla visione del bene comune e da una visione del futuro degna di un paese adulto. Occorre farla finita con la logica del proteggersi sotto le ali del potente di turno, nessuno salverà chi si pensa schiavo

È necessario riprendere la forza dei momenti migliori. Mentre la sfida sale, le altre corti costituzionali lanciano guanti pesanti come piombo, scopriamo che i vecchi ‘amici’ oltre mare sono presi ad osservarsi l’ombelico. Con gli Stati Uniti che sanguinano anche più del nostro paese, sotto la spinta della enorme disgregazione sociale e delle esitazioni di Trump. Ma scopriamo anche nuovi possibili amici che si affacciano sul nostro continente, dopo aver massicciamente investito in Africa e nell’Oriente intermedio. Il fatto del nuovo millennio è questa crescente spinta egemonica volta a creare un nuovo network imperniato sul socialismo cinese, capace di far buon uso anche degli elementi di capitalismo incorporati. Con i fatti bisogna confrontarsi. Naturalmente non dobbiamo imitare nessuno, abbiamo le nostre caratteristiche e le nostre tradizioni, dobbiamo però saper essere. Invece di pensare a come tornare al 2019 dobbiamo assolutamente ri-organizzare il paese.

Non c’è altro modo. Bisogna avviarsi.

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