<<Una religione a sé è diventato l’abuso di diritto, un culto idolatra, forse l’ultimo: sbandierare ed esagerare i propri diritti contro i vicini della porta accanto come prova della propria esistenza. Sferro colpi intorno a me con i miei diritti, dunque esisto. E solo così esisto>>.
L’autore di questo sfogo è un personaggio dell’ultimo romanzo di Peter Handke, La seconda spada (Guanda editore). A pronunciare queste parole è un vecchio giudice, vicino alla pensione, che il protagonista incontra per caso mentre vaga nelle campagne dell’Ile de France rimuginando un antico progetto di vendetta. Benché la loro conoscenza sia del tutto superficiale, il giudice sceglie quell’occasionale momento di intimità per esternare alcune convinzioni “eretiche” (considerata la sua funzione) sul ruolo di assassino della società che l’inflazione dei diritti è fatalmente destinata a svolgere. Mi viene da pensare che le due pagine (da cui ho estratto queste poche righe) che contengono quell’inattesa confessione, possano avere una qualche relazione con il linciaggio mediatico di cui Handke fu oggetto qualche anno fa, a causa delle opinioni espresse in merito al processo per crimini contro l’umanità intentato dalla Corte Penale Internazionale nei confronti dell’ex premier serbo Milosevic. Ma su questo tornerò più avanti.
Prima vorrei dire due cose che mi sono immediatamente venute in mente leggendo quella frase, <<sbandierare i propri diritti contro i vicini della porta accanto come prova della propria esistenza>>. In primo luogo mi sono ricordato della polemica che io e Onofrio Romano sollevammo nei confronti delle tesi sostenute nel libro Il diritto di avere diritti, di Stefano Rodotà. Da un lato, scrivevamo, nel momento in cui elevava a motore di un processo di emancipazione ininterrotto, e potenzialmente senza limiti, “i diritti della persona”, vale a dire di un’entità astratta, individuale, cosmopolita, portatrice di richieste di riconoscimento giuridico che si pretendono, al tempo stesso, ritagliate sull’individuo e “universali”, Rodotà contribuiva, ancorché inconsapevolmente, ad allargare ulteriormente l’abisso fra diritti individuali e diritti sociali spalancato dalla rivoluzione liberale, e assecondato dai teorici socialdemocratici della terza via (da Giddens a Beck). Dall’altro lato, liquidava di fatto come un residuo anacronistico qualsiasi idea di bene comune fondata sulla priorità degli interessi collettivi (di una classe, di una comunità nazionale o altro) nei confronti di quelli della fantomatica “persona”, rimuovendo la verità enunciata da Marx – ma anche da decine di altri autori – secondo cui non esiste individualità al di fuori delle concrete relazioni sociali che la costituiscono.
La seconda considerazione riguarda le sgangherate manifestazioni contro i provvedimenti che molti governi – fra cui il nostro – hanno tardivamente assunto per fronteggiare la prevedibilissima seconda ondata della pandemia da covid19. Sgangherate perché, se una critica andava fatta ai responsabili politici di quelle scelte, era quella di non avere fatto praticamente nulla per fronteggiare la minaccia sui fronti della sanità, dei trasporti e della scuola, sacrificando colpevolmente la tutela della salute agli interessi delle élite economiche (a loro volta miopi nel non comprendere che gli effetti economici di una catastrofe sanitaria minacciano di essere più gravi di quelli del lockdown). Ma ancor più sgangherate perché le rivolte si sono amalgamate attorno a demenziali parole d’ordine negazioniste e complottiste (il virus non esiste, i provvedimenti servono esclusivamente a instaurare un regime securitario, ecc.), aggregando folle eterogenee sia sul piano ideologico (un cocktail di estremisti di destra, ultras del calcio, qualche centro sociale e qualche circolo anarchico uniti dal grido libertà, libertà, tanto per confermare che l’egemonia liberal liberista ha esteso il suo dominio anche agli ambiti suppostamente alternativi e marginali che di quello slogan sono le prime vittime), sia sul piano sociologico (bottegai, artigiani, piccoli imprenditori, partite iva, precari e perdenti di ogni ordine e grado al gioco della globalizzazione). Una melassa del tutto incapace di agire, per citare Ernesto Laclau, da catena equivalenziale, cioè di costituire il nucleo di aggregazione di un “popolo”, in quanto totalmente priva di un principio unificatore, di un’idea egemonica, pura sommatoria di frustrazioni, paure, angosce che restano confinate in ristretti ambiti identitario-corporativi (i diritti impugnati come arma contro il vicino per dirla con il giudice di Peter Handke) totalmente ciechi a qualsiasi visione di bene comune.
Ritorno ora all’ipotesi cui accennavo poco sopra: è possibile che il giudice del racconto abbia a che fare con il linciaggio subito da Handke (i suoi detrattori avrebbero voluto gli fosse tolto il Nobel per indegnità morale) perché aveva difeso Milosevic, mettendo in discussione la legittimità del tribunale che lo giudicava con argomenti già usati in analoghe occasioni, vale a dire il fatto che a subire simili processi sono sempre i perdenti, mentre a giudicarli sono quei vincitori che, spesso, sono tutt’altro che esenti da crimini non meno gravi (non a caso gli Stati Uniti si sono sempre rifiutati di permettere che i loro soldati venissero giudicati per gli innumerevoli crimini commessi in giro per il mondo, mentre si ergono a giudici dei propri nemici). Certo, nel discorso del giudice a essere sotto accusa sono i diritti individuali, ma la critica contro chi usa il diritto come arma contro il proprio vicino, chiedendo che venga riconosciuta al tempo stesso la sua unicità e il carattere universale delle sue pretese/rivendicazioni è tranquillamente estendibile ai rapporti fra potenze e, in particolare, fra il concerto delle potenze occidentali e tutte le altre nazioni, popoli e culture.
Basti pensare alla logica che ispira la guerra fredda contro Cina, Russia, Iran e ad altri presunti “stati canaglia”, o al riflesso islamofobico che ispira reazioni come quelle recenti contro gli attentati integralisti in Francia. Si è arrivati a legittimare come “libertà di espressione” le campagne denigratorie di Charlie Hebdo non contro l’estremismo islamico bensì contro l’identità culturale e storica dei popoli islamici in quanto tali. Ma, chiediamoci, se analoghi insulti fossero stati rivolti contro le vittime della Shoà, contro i movimenti femministi o contro altri bersagli “politicamente scorretti” (cioè perfettamente omologati dalla cultura eurocentrica che si auto erige a depositaria di valori assoluti) la reazione sarebbe stata la stessa? Domanda retorica cui ha risposto indirettamente la direzione del Labour inglese, tornata in mani blairiane, che ha sospeso dal partito Jeremy Corbyn, accusato di “antisemitismo” per avere partecipato ad alcune manifestazioni in difesa dei diritti del popolo palestinese. Ma si sa, non tutti i diritti sono uguali: ci sono i diritti “veramente” universali, cioè quelli sanciti dalle élite dominanti occidentali, e quelli degli altri, che non possono esser tali perché espressione di culture barbare, arretrate, incivili (anche se espressione di civiltà millenarie ben più antiche e nobili della nostra). Niente di nuovo mi si dirà, da quando siamo diventati i dominatori del mondo (grazie a violenze, genocidi e latrocini di ogni genere), cioè dal XVII secolo in avanti, le cose sono sempre andate così. Vero, ma adesso che il nostro dominio vacilla, la virulenza e l’arroganza con cui cerchiamo di riaffermarne la legittimità assume sempre più le tinte inquietanti di un neomaccartismo generalizzato, alimentato da governi, partiti, media e intellettuali di destra e di sinistra. Sia dunque reso onore al giudice e all’autore che gli ha dato vita.