La lotta contro l’inflazione
- I termini del dibattito
Le linee di fondo che il capitalismo italiano si apprestava a percorrere risultavano fissate con sufficiente chiarezza nei dibattiti che abbiamo riferito. Sul piano politico, svuotamento progressivo degli embrioni di controllo operaio sulla gestione dell’economia e riconduzione delle organizzazioni dei lavoratori entro i binari tradizionali dell’attività sindacale, confinata al piano meramente salariale; sul piano della struttura generale del sistema economico accantonamento dell’idea della pianificazione, abolizione progressiva dei controlli, ritorno a una piena economia di mercato; sul piano delle linee concrete di politica economica, scelta decisa dell’obiettivo di integrazione europea, attenzione primaria dedicata alla ristrutturazione industriale e al rammodernamento produttivo, e politica di severo contenimento salariale.
Vista in questa chiave, quella che usualmente viene considerata politica della congiuntura e che viene spiegata ricordando esigenze transitorie e accidentali, acquista invece un significato strutturale di raggio assai più vasto. Su questi aspetti, il dissenso fra le due linee, quella della sinistra riformatrice e quella della destra liberista, era profondo. Le sinistre avevano una visione coerente, che legava in una manovra unitaria il controllo della moneta, dei cambi, dei salari e delle imposte. Veniva in primo luogo il problema del finanziamento della ricostruzione. Qui le sinistre chiedevano l’applicazione di una politica fiscale rigorosa e l’introduzione di un’imposta straordinaria sul patrimonio, in modo da prelevare potere d’acquisto presso le classi più abbienti.
Al tempo stesso, le sinistre chiedevano che i salari venissero tutelati controllando l’inflazione; e, per controllare l’inflazione ed evitare che questa redistribuisse troppo violentemente il reddito a danno dei redditi da lavoro e a favore dei profitti, proponevano due misure: a) anzitutto tenere in vita il razionamento dei generi di consumo, per assicurare un reddito reale minimo distribuito in natura all’intera popolazione; b) effettuare un cambio della moneta. Questa seconda operazione era destinata non solo ad ridurre la circolazione, sì da combattere l’inflazione, ma era anche intesa come mezzo tecnico per applicare un’imposta sulle giacenze liquide, di cui si sarebbe dovuta trattenere una quota al momento della conversione dei biglietti di banca. Era infatti opinione diffusa che buona parte dei profitti guadagnati da speculatori assumesse la forma di riserve liquide e che un’imposta straordinaria applicata al momento del cambio della moneta avrebbe svolto anche il ruolo di imposta sui profitti.
Veniva in secondo luogo il problema dell’utilizzazione dei fondi disponibili per la ricostruzione. Su questo punto, le sinistre, oltre a richiedere la nazionalizzazione dei colossi dell’industria, proponevano il controllo dei cambi, controllo che avrebbe consentito di amministrare le risorse importate dall’estero, che in quella fase rappresentavano un elemento chiave. La valuta estera disponibile era scarsa, dal momento che scarsa era la capacità di esportazione dell’industria italiana e altissimo il fabbisogno di importazioni, specie di materie prime. La valuta disponibile andava quindi amministrata con parsimonia e convogliata verso i settori più bisognevoli di aiuti per la ricostruzione e più rilevanti ai fini della ripresa delle attività produttive. Liberalizzare i cambi significava viceversa lasciare la valuta nelle mani degli esportatori, e rinunciare implicitamente a qualsiasi controllo sulla natura delle importazioni e, in ultima analisi, anche sul processo di ricostruzione dell’industria nazionale.
Il punto di vista della destra su questi problemi era radicalmente diverso. Anche le destre tracciavano una linea compiuta e coerente, ma partivano da principi opposti, che erano quelli dell’economia di mercato. Un primo caposaldo era l’idea che l’inflazione dipendesse esclusivamente da un eccesso di spesa pubblica: su questo punto Einaudi era fermissimo e lottava strenuamente per una politica di riassestamento delle finanze dello Stato. Da un lato, si raccomandava quindi il massimo rigore nello stanziamento di fondi pubblici, anche se ciò comportava palesemente una limitazione di quelle opere pubbliche che risultavano vitali per il processo di ricostruzione; dall’altro, si riaffermava una politica di espansione delle entrate, facendo leva sia sulla finanza ordinaria sia su quella straordinaria: prestiti pubblici e imposta straordinaria sul patrimonio, unico punto, quest’ultimo, sul quale anche Einaudi e Corbino si trovavano concordi con le sinistre. Le destre erano invece contrarie al cambio della moneta.Secondo Corbino, il cambio della moneta andava considerato non solo inefficace contro l’inflazione, ma anche dannoso perché avrebbe ridotto ulteriormente la fiducia del pubblico nella moneta e reso ancora più instabile l’equilibrio monetario. Una volta riportato all’equilibrio il bilancio dello Stato, e quindi arrestata l’inflazione, le destre sostenevano che si sarebbe potuto porre il problema di reperire le risorse per la ricostruzione facendo appello alla classe lavoratrice chiedendo una linea di contenimenti salariale e di sacrifici. Quanto all’utilizzazione delle risorse per la ricostruzione, per le destre non vi erano problemi: si sarebbe dovuto smantellare al più presto ogni residuo di controlli amministrativi, perché soltanto un mercato libero avrebbe assicurato un uso efficiente delle risorse produttive. Si ricordavano inoltre tutti gli inconvenienti che ogni controllo porta con sé, il peso della burocrazia che sarebbe stato necessario tenere in vita, la tendenza alla corruzione che í controlli avrebbero stimolato, le contrattazioni di mercato nero che sarebbero sorte e che avrebbero annullato i vantaggi del razionamento.
In questo quadro, le destre erano, inutile dirlo, contrarie anche al controllo dei cambi. Era infatti convinzione radicata dei teorici dell’economia di mercato che affidando il corso delle valute alle contrattazioni libere degli operatori, e assegnando le valute estere disponibili a chi offriva di pagarle al prezzo più alto, sarebbero state automaticamente assegnate a chi sapeva farne l’uso più produttivo, e, in tal modo, le scarse importazioni possibili sarebbero state utilizzate nel modo più efficiente per la ricostruzione.
- Inflazione e cambio della moneta
Il conflitto fra le due linee si risolse ben presto a favore della linea liberista. Nel giugno del 1945 venne costituito il primo governo dell’Italia unita dopo la Liberazione. Esso fu presieduto da Ferruccio Parri e vide il comunista Scoccimarro al ministero delle Finanze, mentre il ministero del Tesoro andò al conservatore Soleri (poi sostituito da Ricci). Governatore della Banca d’Italia era Luigi Einaudi. Il governo trovava una situazione di inflazione ormai dilagante. Durante gli anni di guerra, l’inflazione era stata contenuta, almeno in parte, e soltanto alla fine delle ostilità l’aumento dei prezzi era divenuto vorticoso. L’indice dei prezzi all’ingrosso, su base 1938 = 100, nel 1944 era pari a 858, e doveva salire ancor più velocemente negli anni seguenti, toccando il livello 2060 nel 1945, 2884 nel 1946, 5159 nel 1947. La fine della guerra aveva portato con sé non soltanto la fine dei meccanismi che in precedenza erano stati messi in opera per sottrarre liquidità al settore privato (quali le collocazioni forzate di titoli pubblici presso banche e privati), ma anche l’immissione di moneta cartacea da parte delle autorità militari alleate, immissioni sulle quali le autorità monetarie italiane non avevano alcun controllo. A partire dal giugno 1943, quando era cominciata l’occupazione delle regioni ’91’ meridionali, e fino al febbraio 1946, le autorità militari alleate emisero moneta a corso legale (le Allied Military Notes, o «amlire»), utilizzate per il pagamento degli stipendi ai militari e per l’acquisto di beni e servizi nei territori occupati. Era chiaro che immissioni di mezzi di pagamento così cospicue non potevano che provocare pressioni inflazionistiche violente.
All’inizio, l’emissione di amlire venne effettuata senza alcuna contropartita per l’economia italiana, quasi una sorta di imposta fatta gravare sul paese sconfitto, e commisurata di volta in volta al fabbisogno delle truppe occupanti. Fu soltanto nel marzo 1945 che gli Stati Uniti, seguiti dal Canada, concessero al governo italiano aiuti supplementari (per 140 milioni di dollari) intesi come controvalore (counterpart funds) delle emissioni di amlire. In tal modo, almeno parte delle emissioni venne recuperata sotto forma di importazioni.
Un ulteriore fattore di inflazione fu costituito, secondo numerosi osservatori, dal cambio fra lira e dollaro che le autorità militari fissarono in ragione di 100 lire per un dollaro (quattrocento per una sterlina). Questo livello del cambio rappresentava un brusco adeguamento rispetto al cambio prebellico, che era stato di 19 lire per un dollaro, e integrava una svalutazione implicita di oltre cinque volte, misura che non pochi ritennero eccessiva rispetto alla perdita di potere d’acquisto verificatasi fra il 1938 8e il 1943. A tale sottovalutazione iniziale della lira molti attribuirono in buona parte l’origine dell’inflazione. È certo che un cambio più basso avrebbe significato un minore potere d’acquisto per le truppe occupanti, e quindi avrebbe comportato una spinta inflazionistica più tenue. Ma è anche certo che se la politica monetaria delle forze militari alleate era un fattore di inflazione, essa lo era assai più attraverso le emissioni incontrollate di amlire che non a causa della sottovalutazione iniziale della lira.Il governo Parri, che fin dall’inizio nasceva con un programma economico piuttosto limitato, pose in primo piano la decisione di effettuare cambio della moneta, come misura di lotta all’inflazione e di rastrellamento dei profitti speculativi.
In un primo momento, il piano per il cambio della moneta ebbe l’appoggio degli esperti angloamericani (Ellwood 1977, 337). Operazioni di cambio della moneta erano state effettuate in Norvegia, in Grecia, nel Belgio, in Corsica e in altri paesi ancora. Ma gradualmente, le autorità militari alleate si andarono distaccando dall’idea, anche a causa delle argomentazioni martellanti di Corbino.Il piano per il cambio della moneta venne approntato dalla Banca d’Italia e l’operazione fissata per il marzo 1946. Questa lentezza di attuazione, che indeboliva in partenza l’efficacia della manovra, scaturiva dai contrasti che l’operazione suscitava all’interno della compagine governativa. Avversario feroce della manovra era Corbino, che la considerava imitazione tardiva delle esperienze della Francia e del Belgio, la dichiarava controproducente e le riconosceva una funzione meramente materiale e tecnica di cambio delle unità di conto. In queste condizioni, l’unico provvedimento contro l’inflazione che il governo Parri riuscì a prendere fu quello di estendere alle regioni del Nord, ora liberate, il prestito della Liberazione, che era stato lanciato nell’aprile 1945 dal prece ente governo Bonomi. Nel novembre 1945, Parri si dimise e fu sostituito da De Gasperi, che nel formare il nuovo governo affidò il dicastero del Tesoro proprio a Corbino, dando così a intendere la propria avversità all’operazione di cambio della moneta. Scoccimarro, rimasto ministro delle Finanze, ripropose il cambio della moneta nel programma di governo, insieme all’introduzione di un’imposta progressiva sul patrimonio e all’avocazione dei profitti di guerra. Alle richieste di Scoccimarro, restato peraltro solo nell’ambito del governo a sostenere il cambio della moneta, venivano opposte continue difficoltà e richiesti nuovi rinvii. Si scoprì infine che le matrici apprestate per stampare i nuovi biglietti erano state trafugate e che la Banca d’Italia non riteneva di poter distribuire alle sedi provinciali i quantitativi di valuta necessaria, a causa della scarsa sicurezza dei trasporti. Dell’operazione di cambio non si parlò più. Del resto, anche se essa fosse stata realizzata, i suoi effetti non sarebbero stati più quelli che si sarebbero potuti ottenere un anno prima.
- Cambi esteri e aiuti internazionali
La sconfitta subita dalle sinistre sul tema del cambio della moneta doveva ripercuotersi inevitabilmente sull’intera politica economica del governo. Con il 1946, cominciò la politica di liberalizzazione progressiva e di abolizione graduale dei controlli, a cominciare dal controllo del corso dei cambi Fino a quel momento, il cambio ufficiale era rimasto al livello iniziale di 100 lire per un dollaro, con un regime di rigorosa assegnazione delle valute agli importatori. Le pressioni degli esportatori si esercitavano ovviamente in direzione opposta. In prima linea si trovavano i tessili, che godevano di una posizione di favore sui mercati internazionali e che, riuscendo a sviluppare le proprie esportazioni con particolare successo, desideravano disporre liberamente sui mercati di importazione della valuta estera di cui venivano in possesso.
Nel marzo e nell’aprile 1946, con due decreti successivi, vennero prese misure che servirono in parte a soddisfare le esigenze degli esportatori. In primo luogo, venne concesso agli esportatori un premio di esportazione di 125 lire per ogni dollaro; questo equivaleva a portare il cambio per gli esportatori da 100 a 225 lire. Si trattò di una misura ragionevole nella sostanza, in quanto la svalutazione facilitava le esportazioni (alcuni ritennero che, data la rigidità della domanda internazionale, le esportazioni si sarebbero sviluppate anche senza svalutazione, e giudicarono negativamente questo provvedimento); fu anche una misura realistica, in quanto la lira si era effettivamente svalutata considerevolmente anche sul mercato interno. In secondo luogo, con provvedimento assai criticabile, si concesse agli esportatori la libera disponibilità del 50 per cento della valuta ricavata dalle esportazioni. Metà della valuta poteva quindi essere commerciata su un mercato libero (che venne detto mercato parallelo), mentre l’altra metà doveva essere ceduta all’Ufficio italiano dei cambi, al prezzo ufficiale. Il mercato parallelo registrava automaticamente la svalutazione progressiva della lira e, altrettanto automaticamente, le aspettative di inflazione degli operatori, con tutte le caratteristiche speculative accennate in precedenza. Il corso su tale mercato era inoltre necessariamente più elevato del cambio di equilibrio, in quanto il cambio di equilibrio doveva risultare da una media fra cambio libero e cambio ufficiale fissato a 225 lire.
Il regime dei cambi diveniva così piuttosto complesso, come tutti i sistemi basati su cambi multipli. Esistevano simultaneamente fino a quattro prezzi del dollaro: il cambio ufficiale di 100 lire, per spese dei turisti e rimesse degli emigranti; il cambio commerciale di 225 lire, che si applicava alla metà dei proventi delle esportazioni; il cambio libero, che si applicava al rimanente 50 per cento, e che fluttuava giorno per giorno; infine il cambio stipulato volta per volta negli accordi commerciali con singoli paesi.Nel luglio 1946, dopo l’espletamento del referendum istituzionale e le elezioni per l’Assemblea costituente, si formò un secondo governo De Gasperi. In quei mesi, sembrava che l’inflazione avesse subito una battuta d’arresto: fra l’aprile e il settembre l’indice dei prezzi all’ingrosso rimase pressoché stazionario. Le autorità economiche continuarono tuttavia nella politica contenimento della spesa pubblica e di limitazione delle opere pubbliche, indipendentemente dall’utilità che queste potessero avere per il processo di ricostruzione; e, al tempo stesso, nella convinzione che, contrariamente alla spesa pubblica, l’investimento privato non esercitasse alcun influsso inflazionistico, lasciavano crescere il flusso di liquidità a favore del settore privato e consentivano l’espansione incontrollata del credito bancario.
A loro modo di vedere, la spesa pubblica era mera «creazione di biglietti», mentre il credito al settore privato avrebbe alimentato la produzione e ridotto la scarsità di prodotti sul mercato. Coerentemente con questa visione, la politica governativa continuava nella abolizione progressiva dei controlli, sostenuta in questo da Corbino che, come ministro del Tesoro, attuava gradualmente il suo programma di liberalizzazione dell’economia. Nel mondo della produzione soltanto il carbone e pochissime altre materie prime rimasero soggette ad assegnazione, senza peraltro che vi fossero ulteriori controlli sulle utilizzazioni successive, il che favoriva il fiorire del mercato nero e della speculazione. Con la motivazione di coprire la spesa_pubblica, venne allora lanciato un nuovo prestito pubblico detto della Ricostruzione. Al fine di assicurarne la sottoscrizione, fu però necessario incoraggiare l’intervento delle banche, le quali ottennero ammontare cospicui di liquidità dalla Banca d’Italia.
Accadde così che il prestito invece di raccogliere liquidità giacente presso il pubblico, come era accaduto con il precedente prestito della Liberazione, ebbe l’effetto di immettere liquidità fresca nel circuito monetario. L’inflazione riprese vorticosa.In questa linea di azione, rientrava con coerenza l’idea che gli aiuti esteri dovessero essere utilizzati anzitutto per accrescere le riserve valutarie e consolidare la posizione della lira, piuttosto che per accelerare il processo di ricostruzione. Nei primi anni del dopoguerra l’Italia ricevette aiuti attraverso l’organizzazione dell’Unrra (United Nations Relief and Rehabilitation Administration), emanazione delle Nazioni Unite. Tali aiuti consistettero soprattutto in sussidi alimentari, ma in un momento successivo presero anche la forma di mezzi di produzione che venivano ceduti a imprenditori privati, mentre il governo italiano tratteneva il ricavato. Nel 1948, agli aiuti di carattere internazionale somministrati dalle Nazioni Unite si sostituirono gli aiuti forniti direttamente dagli Stati Uniti con il Piano Erp (European Recovery Program). Questo prese avvio dal discorso pronunciato il 5 giugno 1947 alla Harvard University dall’allora segretario di Stato Marshall, il quale lanciò l’idea di un vasto intervento in aiuto dei paesi europei, allo scopo di accelerare la ricostruzione e la ripresa postbellica. Era chiaro che ciò rispondeva all’esigenze dell’economia statunitense, che in tal modo si metteva al riparo da un’eventuale crisi economica conseguente alla fine delle delle spese belliche; ed era anche chiaro che, con questo programma di aiuti venivano a creare un rapporto specifico fra paesi europei e Stati Uniti d’America, cosa questa che determinò un immediato raffreddamento del Partito comunista italiano nei confronti degli aiuti. stessi. Nell’aprile 1948, il Congresso americano approvò il programma, e nel giugno successivo l’Italia sottoscrisse il protocollo di accettazione.
Con il Piano Erp (più comunemente noto come Piano Marshall) venivano forniti prestiti e contributi ai paesi europei; gli importatori acquistavano le merci loro occorrenti pagandole direttamente al governo italiano, il quale diventava titolare di un fondo lire, che avrebbe potuto utilizzare a scopi di ricostruzione. Ma, come_dicevamo, specialmente agli inizi, il fondo lire venne utilizzato soprattutto per accrescere le riserve valutarie (che infatti nel corso del 1948 passarono da 70 a 440 milioni di dollari). A questa utilizzazione si opponevano gli esperti inviati per assistere l’Italia nell’applicazione del piano; costoro premevano per una utilizzazione dei fondi che alleviasse il problema della disoccupazione, nel timore che i disagi da questa provocati potessero ulteriormente rafforzare il Partito comunista. Soltanto nel 1949, quando il programma di ristrutturazione dell’industria italiana venne avviato concretamente, si notò una utilizzazione del fondo lire a scopi produttivi, e si ebbe un accrescimento sostanziale delle importazioni di macchinari e di materie prime. Vennero al tempo stesso approvati alcuni importanti interventi di spesa pubblica: la legge Tupini, destinata a finanziare le opere pubbliche eseguite dai Comuni, e la legge Fanfani per la costruzione di alloggi per i lavoratori. Nel 1959, come diremo, vennero avviati i primi massicci interventi a favore del Mezzogiorno.
Augusto Graziani – Lo Sviluppo dell’Economia Italiana