Se consideriamo il periodo che va dagli anni Cinquanta agli anni Novanta dal punto di vista dei cambiamenti nella dimensione delle imprese, ci accorgiamo del succedersi di due linee di tendenza tra loro contraddittorie.
Nei primi due decenni assistiamo ad un importante fenomeno di concentrazione industriale, consistente a due processi: in primo luogo la creazione di un mercato nazionale, che comporta un forte ridimensionamento delle attività artigianali tradizionali e più in generale l’uscita dal mercato di numerose piccole impose a dimensione locale-regionale (entrambi i fenomeni sono particolarmente evidenti nel Mezzogiorno); in secondo luogo, l’integrazione economica europea, che impone una ristrutturazione dell’apparato produttivo nei settori più esposti alla concorrenza internazionale.
Entrambi i processi concorrono a far si che il peso delle piccolissime imprese (quelle con meno di 10 addetti) passi in vent’anni da un terzo (1951) ad un quinto (1971) dell’occupazione manifatturiera totale.Dopo il 1971, però lo scenario cambia completamente Riprende a crescere l’occupazione nelle imprese sotto i 50 addetti: dal 42% del 1971 si passa al 48% del 1981, per giungere al 58% del 1991. Il processo opposto si registra nello media e grande impresa: le imprese con più di 500 addetti, in particolare, vedono scendere la percentuale relativa di forza-lavoro occupata di ben 11 punti dal 1971 al 1991.
Ancora più eclatante quanto accade alle imprese con più di 1000 dipendenti: se dal 1961 alla fine del decennio l’occupazione in queste imprese era cresciuta del 34.7% (a fronte di una crescita dell’occupazione nell’industria del 17,6%), negli anni Settanta il percorso si inverte: dal 1971 al 1980 si ha un calo del 9.7% (a fronte di una crescita dell’occupazione del 12%); e il calo dell’occupazione nella grande industria continuerà per tutto il ventennio successivo.
È dal censimento del 1971 che possiamo fare datare “l’inarrestabile ascesa” delle piccole e medie imprese italiane. Si tratta di un fenomeno che ha dato luogo ad una folta letteratura apologetica, che ne ha fatto I’elemento (positivamente) caratterizzante l’economia italiana: così, sin dagli anni Settanta si è parlato di «Italia dei distretti industriali» (Becattini), di “terza Italia” (Bagnasco). di «capitalismo molecolare» (Bonomi). Secondo queste impostazioni, sono le piccole e medie imprese a rappresentare il punto di forza dell’economia italiana, contraddicendo tutte le teorie economiche che fanno delle economie di scala un importante – se non indispensabile – vantaggio competitivo.La verità, come spesso succede, è molto più prosaica delle teorie con cui si cerca di spiegarlo.
Il successo delle PMI nasce dai problemi della grande industria. Quest’ultima infatti, grazie all’accresciuta forza e consapevolezza della classe operaia, non può più adoperare la leva dei bassi salari e vede quindi ridursi dreasticamente i margini di profitto. E reagisce esternalizzando produzioni, per colpire il sindacato e la capacità di contrattazione della classe operaie. Questo si traduce, come subito denunciato dal sindacato, in salari più bassi, straordinari più frequenti, diffusione del lavoro nero, più in generale minori tutele per il lavoro. Del resto i numeri parlano da soli: posti pari a 100 i salari delle imprese maggiori, i salari delle imprese da 20 a 50 addetti erano pari a 67 nel 1974-77 e pari a 71 ancora alla fine degli anni ottanta. Come ovvio risultato, la quota dei profitti lordi sul valore aggiunto risultò più alta nelle piccole imprese che nelle grandi in tutto il periodo considerato.
Di poco posteriore alla strategia del decentramento produttivo, fu quella della finanziarizzazione. Essa si delineò con chiarezza a seguito dei due eventi economici fondamentali che segnarono l’inizio degli anni Settanta: la fine della convertibilità del dollaro in oro (agosto 1971), che diede inizio a ripetute crisi valutarie internazionali e costrinse la lira alla fluttuazione del cambio (1973); e la crisi petrolifera del 1973, che sancì la fine del periodo delle materie prime a basso prezzo ( e colpi I’ltalia in misura particolare). Ed ecco cosa successe, secondo uno dei migliori studi di sintesi sulle vicende della Borsa italiana: “A scorrere l’elenco delle società via via ammesse al listino azionario della Borsa milanese… si percepisce, forse meglio che da qualsiasi altro osservatorio, la tendenza dell’élite del capitalismo italiano a esercitare, dalla crisi petrolifera del 1973, sempre meno l’industria e sempre più la finanza, intesa non come mezzo per sostenere la crescita della produzione come attività a sé stante. vera e propria ‘industria’ capace di realizzare nelle sue operazioni la parte principale dei profitti”.
II passo ora citato inquadra con precisione il processo di abbandono della grande industria da parte delle principali dinastie imprenditoriali italiane, e ne data (correttamente) l’inizio agli anni Settanta. E’ in questi anni che “molte grandi imprese – ma il fenomeno fu internazionale – iniziano a potenziare le unità specializzate nell’intermediazione finanziaria; intervenendo direttamente in operazioni di arbitraggio e sui titoli esse «contaminano» i loro profitti con elementi propri di altre forme di reddito (interesse, guadagni speculativi) e l’apporto della gestione extra-industriale al risultato operativo diventa sempre crescente, contribuendo a spostare gli obiettivi primari dalla produzione alla massa di manovra disponibile per gli interventi di breve impegno e di molta resa”
In altri termini, in questi anni inizia la sostituzione della produzione industriale con speculazioni finanziarie quale mezzo per realizzare profitti. Il motivo di questo fenomeno e dato dalla crisi di sovrapproduzione e di accumulazione del capitale che dagli anni Settanta si prolunga sino ai nostri giorni (e che spinge, come scriveva già Grossmann negli anni Venti, verso due forme di «esportazione dei capitali»: verso la Borsa e verso l’estero) E’ in questo contesto che le grandi famiglie del capitalismo italiano imboccano la strada della «finanziarizzazione». Molte società prima a carattere industriale vengono così trasformate in società finanziarie che, «più che dirette a reperire ritorse» per le attività industriali dei gruppi di appartenenza, appaiono «volte a realizzare vantaggi di tipo speculativo» in quanto tali. Sfogliando l’elenco delle società quotate alla Borsa di Milano si può toccare con mano l’entità di giusta trasformazione.
Cosi, nel solo 1973 sotto quotate in Borsa, con funzione di holding finanziarie: la Concerie Italiane Riunite (CIR; nel 1976 verrà acquisita dal gruppo De Benedetti e ridenominata Compagnie Industriali Riunite): la Gilardini Industriale, costituita nel 1905, e venuta in possesso di De Benedetti (nel 1976 passerà a Fiat, e nel 2000 sarà incorporata nella Magneti Marelli); la Nazionale Partecipazioni Finanziaria: la Riva Finanziaria, nata il 1946 come Simic; l’Acqua Marcia, costituita nel 1867 (ora la parte del Gruppo Caltagirone). Negli anni successivi sarà la volta della Finrex (1974) e delle Terme Demaniali di Acqui (1978). Negli anni Ottanta avremo l’Italmobiliare (1980), Gemimi (1981), Cofide (1985), Cam Finanziaria e Sogefi (1986), Ferruzzi Finanziaria (1988) e Franco Tosi (1989). Negli anni Novanta, il definitivo svuotamento di Olivetti e la sua trasformazione in scatola finanziaria. In quasi tutti questi casi, si tratta di ex società manifatturiere trasformate in veicoli per operazioni finanziarie.
Esse portano non di rado impressa nel loro stesso nome la storia di una radicale metamorfosi del capitalismo italiano. Una metamorfosi che ha condotto le imprese finanziarie italiane a pesare sulla capitalizzazione di Borsa per qualcosa come il 37% (a fronte del 15% della Francia, del 25% del Regno Unito. del 30% della Germania, dove pure le banche hanno storicamente un peso significativo in Borsa).
Nel nuovo regime dei cambi flessibili, con la lira fluttuante. si ebbe un’impennata dell’inflazione con il risultato di comprimere i salari reali e di premiare gli speculatori che avevano portato i capitali all’estero. II movimento dei lavoratori rispose chiedendo una revisione del meccanismo della scala mobile, e l’introduzione del punto unico di contingenza (1975). Nel corso del 1975 la crisi economica si approfondì (per la prima volta dal dopoguerra il PIL risultò negativo), e nel gennaio del 1976 le banche statunitensi furono sconsigliate dal concedere nuovi prestiti all’Italia. Nel 1977, contestualmente all’avvicinamento del PCI alla compagine governativa, si ebbe la cosiddetta svolta dell’Eur: le confederazioni sindacali si dichiararono disponibili non soltanto alla «moderazione salariale», ma anche a favorire la «mobilità» del lavoro per consentire la ristrutturazione del settore industriale. Contemporaneamente, lo Stato si fece carico di numerose crisi industriali, acquisendo dai Privati aziende sull’orlo del fallimento o introducendo particolari ammortizzatori sociali. In questa fase, il ruolo preminente dello Stato non è più quello di imprenditore (anche se l’IRI è ormai il primo gruppo industriale del Paese, e già nel 1974 il settore pubblico copre il 28,8% del fatturato e il 29,6% dei dipendenti delle prime 350 società italiane). ma quello di socializzatore delle perdite maturate dalle imprese private e di ammortizzatore del conflitto sociale. Il tutto a carico del bilancio pubblico, pagato quasi esclusivamente con le tasse dei lavoratori. Che così la crisi la pagano due volte.
Vladimiro Giacchè – La Classe Inadeguata. Storia e caratteristiche della borghesia italiana dal dopoguerra ad oggi.
Pubblicato in: Lavoro contro Capitale. Precarietà, sfruttamento, delocalizzazione, a cura di Luciano Vasapollo. Milano, Jaca Book, 2005 (Di Fronte e attraverso; 688. Saggi sul Capitalismo)