Nel decennio 2010-2012 si è sviluppato un arco di crisi che ha modificato sensibilmente le
condizioni della globalizzazione che erano prevalse a partire dal loro lancio negli ’80. Ridotta
all’osso si potrebbe dire che la globalizzazione fu la dichiarazione, da parte dei gruppi dirigenti del
capitalismo mondiale, che i lavoratori dei paesi industrializzati erano o dovevano diventare inutili
sia dal lato dell’offerta, con l’esternalizzazione della produzione, che dal lato della domanda.
Conseguentemente i Democratici USA incominciarono a ridefinire la loro base sociale
abbandonando via via i lavoratori dell’industria a favore di un’arlecchinata di gruppi sociali ed
etnici.
La crisi del 2008-29, ne interruppe la marcia trionfale.
Come nel ’29, collassarono insieme squilibri originati nel periodo. La compressione salariale,
l’esplosione del debito privato (lasciato andare anche a compensare la compressione salariale),
l’esplosione finanziaria mondiale e il decollo quasi simultaneo di importanti paesi emergenti come i
BRICS. La risposta USA fu l’utilizzo emergenziale di stimoli di bilancio (secondo la ricetta
keynesiana nella crisi). Ma, il perdurare nelle sfere di governo della svolta anti-keynesiana
dell’amministrazione Clinton, limitò la dimensione dello stimolo. Il risultato fu una ripresa
abbastanza lenta e difficoltosa, in termini di occupazioni e di condizioni sul mercato del lavoro;
ottenuta solo grazie ad anni (2012-15) di politiche monetaria espansive.
Il risultato fu Trump nel 2016.
A differenza della dirigenza democratica i gruppi di potere che sostenevano Trump avevano preso
atto del fallimento della scommessa più importante della globalizzazione: che non avrebbe posto
alcun rischio all’egemonia mondiale USA, a patto che questi detenessero saldamente oltre
l’egemonia finanziaria, indiscutibile, anche quella sulla frontiera della tecnica. La rincorsa cinese,
non solo in termini di decollo economico, ma anche di rincorsa tecnologica, vanificava l’illusione.
Trump metteva in scacco la dirigenza democratica mettendola sotto accusa sulla scommessa di
potenza globale con la Cina, e utilizzando il logoramento democratico nelle tradizionali basi
industriali, dovuto sia alla lunga erosione delle condizioni di vita dei lavoratori americani (i milioni
di posti di lavoro persi dagli anni 2000 in poi, e non recuperati nella ripresa post-2009), e di tutte le
loro aree di insediamento. La sfida di Trump è stata capita nel suo lato globale, come si vede bene
dal fatto che il conflitto con la Cina non accenna a attenuarsi, nonostante il cambio di direzione
politica; e con molte più difficoltà e contrasti anche nel lato interno, come si vede dalle misure di
Biden contro la pandemia.
Ma quest’attacco alla dirigenza globalista liberal-democratica USA aveva una corrispondenza in
Europa anche più pericolosa per la stabilità dell’egemonia liberal-democratica globale. Le dirigenze
europee avevano infatti abbracciato un rifiuto delle politiche keynesiane, e del compromesso
politico implicito, ancora più radicalmente reazionario di quello reaganiano negli USA.
I Trattati di Maastricht erano stati costruiti sul dogma dell’inibizione di politiche espansive da parte
degli Stati membri, grazie anche all’avocazione della sovranità monetaria, messa in mano a una
Banca centrale il cui unico compito avrebbe dovuto essere il controllo dell’inflazione. Una linea
strutturalmente deflazionista (cioè che crei disoccupazione) che indebolisse dal lato
macroeconomico le condizioni sul mercato del lavoro che, come indicava la linea tedesca (vedi
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l’Agenda 2010 di Schröder), dovevano essere compresse per competere sui mercati globali con i
paesi emergenti.
Fu per l’adesione al dogma di Maastricht che le dirigenze europee, in particolare quella tedesca,
pensarono di cogliere l’occasione della crisi del 2008-09 per imporre una ulteriore gerarchizzazione
che potesse anche preludere a un’uscita dall’euro di alcuni paesi; e quindi accentuarne la
subalternità. Dopo uno stimolo fiscale minimo durante l’apice della crisi nel 2009, la dirigenza
europea impostò, nell’aprile 2010 una politica di austerità (attuata solo a partire dal 2011) e,
contemporaneamente, provocava il fallimento della Grecia. Questa strategia, che in Italia comportò
la seconda fase recessiva (2012-14) del governo Monti (per cui l’Italia è l’unico paese del G8 a non
essere tornato ai livelli di PIL pre-2007), ebbe come conseguenza una ripresa debole in Europa
(ampiamente sopravanzata da quella USA).
Inoltre il postulato dell’abbattimento del debito, iscritto nel Fiscal Compact, provocò una
speculazione mondiale nei confronti del debito sovrano, in generale europeo, ma soprattutto
dell’Italia (giudicato, cioè, un paese che non avrebbe potuto ottemperare al vincolo, come nel 1992).
Il postulato che all’attacco sul debito si dovesse rispondere solo con l’austerità fiscale, sostenuto
ostinatamente da forze interne alla Germania (Weidman, il Presidente della Bundesbank, Schaüble,
il Ministro delle Finanze, forze in Parlamento e, come si è visto di recente, la Corte Costituzionale)
avrebbe potuto nell’immediato costringere l’Italia ad accettare un Programma di Aggiustamento,
come la Grecia, cosa che avrebbe prodotto sia un gravissimo immiserimento popolare, sia la rapina
di gran parte degli asset del paese (reti, imprese; come in Grecia). In quelle condizioni sarebbe stato
ovviamente proponibile anche un’uscita dall’euro; probabilmente gradita a forze tedesche (come
l’offerta di Schaüble a Varoufakis fece pensare). La crisi del debito sovrano europeo e dell’euro, e il
fallimento italiano, furono evitati dalla nuova presidenza della BCE, in implicita violazione dei
Trattati, con il whatever it takes di Mario Draghi.
Ciò nonostante questa pressione politica ed economica per comprimere le condizioni di vita
popolari europee durò ed ebbe la sua sanzione nella vicenda della trattativa chiesta dalla Grecia per
rivedere le pesanti condizioni di rientro dal fallimento del 2010. Nel luglio 2015 alla Grecia furono
imposte, a monito per tutti, condizioni ancora più dure di quelle iniziali. Ma questo provocò una
crisi politica del tutto inattesa dai gruppi dirigenti europei che avevano scommesso che questa
politica di compressione, approfittando della debolezza popolare dovuta alla crisi, non avrebbe
portato a rilevanti sommovimenti a sinistra (questo grazie anche all’acquiescenza delle forze di
centrosinistra europee a questa linea).
Le fratture più rilevanti, infatti, dal 2016 in poi, si ebbero sulla destra.
Nel 2016, infatti, oltre allo shock Trump, ci fu anche lo shock Brexit, e l’assalto Le Pen in Francia.
In tutte le situazioni colpisce lo scollamento di elettorati tradizionali dal radicamento a sinistra (nel
Rust Belt USA, come nel Nord dell’Inghilterra e nel Nord della Francia). L’arco dell’attacco
sovranista da destra è ampio in Europa: l’attacco alla presidenza francese della Le Pen su temi antieuropeisti,
la crescita di Afd in Germania, la crescita delle destre nei Paesi Bassi, la ripresa della
Lega salviniana sul progetto lepenista nazionale dopo il minimo elettorale del 2013, ma anche la
crescente conflittualità del centro politico ordo-liberale di Bruxelles con le destre di governo
polacche e ungheresi. Tutte queste fratture, infatti, mettono in discussione il progetto imperiale
europeista.
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Nello stesso periodo incomincia a emergere anche un’opposizione al progetto europeo catalogabile
come ‘sovranismo di sinistra’, seppur con forti elementi di ambiguità. Nel 2014 nasce Podemos che
raggiunge risultati elettorali nazionali notevoli nel 2016. Già nel 2013 una formazione dal chiaro
profilo anti-europeista come 5S aveva superato il 20%. Analogo risultato era stato raggiunto da
France Insoumise, nelle presidenziali del 2016. Ma questi scollamenti non intaccano la convinzione
del centro ordo-liberale europeo, raccolto intorno alla Germania, che la propria egemonia sia solida
e la linea dell’austerità come chiave per l’unificazione subalterna di gruppi dirigenti dei paesi del
sud, inattaccabile.
Lo si vede bene dai casi francese e inglese.
L’operazione Macron, voluta dal centro dei poteri francesi, opera una incredibilmente rapida ed
efficace ristrutturazione del sistema politico francese. Di fatto scompare il Partito socialista,
svuotato dalle massicce defezioni dei suoi quadri politici verso Macron; i gollisti, asse centrale in
Francia per decenni, vengono ridotti a forza subalterna; la sinistra viene emarginata, grazie alla
legge elettorale; eppure contribuisce alla sconfitta del vero pericolo politico anti-europeista: la Le
Pen. Ma, nonostante questa dominanza interna, Macron accetta in pieno la subalternità alla linea
europea della compressione sociale (elusa in precedenza) come dimostrano i movimenti di protesta
che caratterizzano i suoi primi anni di presidenza.
Per quanto riguarda il Brexit, accolto con un’avversione politica assoluta dalle elite europee in
quanto assesta un duro colpo al loro progetto imperiale, è però affrontato con la granitica convinzione
(come si vede da documenti, dichiarazioni, comportamenti europei e campagne di stampa,
in Inghilterra e fuori) di poterlo frenare, bloccare, svuotare e magari perfino revocare. Convinzione
che guiderà i comportamenti della Commissione europea verso l’UK fino alle elezioni europee del
2019, quando questa linea verrà bocciata dagli elettori britannici i quali, dando più del 30% a un
partito anti-europeista, costringeranno i Conservatori ad attuare il Brexit.
La dirigenza europea, pur preoccupata dell’insorgenza anti-europeista, lancia un contrattacco
politico basato sulla delegittimazione dell’insorgenza anti-europeista (di destra o di sinistra che
fosse) col termine dispregiativo di ‘populista’; ma si vede chiaramente che non pensa che questa
insorgenza possa o debba mettere in discussione la linea dell’austerità e della compressione sociale.
Anzi.
La conclusione (affidata a un Rapporto del gruppo di consiglieri ‘ufficiali’ del governo, nel luglio
2015) che la dirigenza tedesca trae dalla trattativa con la Grecia è che bisogna ridurre la capacità
degli Stati di ‘contrattare’ sull’austerità, e quindi bisogna introdurre automatismi, prima per le
penalità in seguito a sforamenti e poi, eventualmente, per l’espulsione dall’euro. Questa linea viene
rilanciata da Schaüble nel 2017, e resta l’asse della riforma del sistema bancario europeo, nel senso
di una sua maggiore unificazione, e della riforma del MES, il cosiddetto fondo salva-Stati, che deve
presiedere all’erogazione di prestiti a Stati in difficoltà e/o all’attuazione di Piani di Aggiustamento
(leggi trojka) in caso di situazioni insostenibili sui mercati finanziari. Ambedue le riforme trovano
formulazione entro il 2019 e vengono proposte all’approvazione degli Stati, e ambedue comportano
rischi gravissimi per l’Italia; sia per il sistema bancario italiano che per la sostenibilità sui mercati
del debito sovrano italiano. Vale a dire che fino alla vigilia della pandemia l’Unione europea non
aveva modificato per nulla sia la linea dell’austerità che le modalità per imporne il rispetto; anzi, le
aveva irrigidite.
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L’unica preoccupazione era stata per l’attacco politico ‘populista’; assolutamente nessuna per le
ragioni che potevano averlo alimentato. Eppure, tra il 2017 e il 2019 la battaglia anti-populista
aveva segnato delle battute d’arresto. Sia in Inghilterra, dove la linea di contenimento del Brexit
viene rovesciata nel 2019, e l’UE è costretta ad accettare l’amputazione del centro finanziario
mondiale londinese come una base del suo progetto imperiale. Mentre in Italia lo scollamento
dell’opinione pubblica dall’ipotesi europeista si era ampliato al punto da dare la maggioranza in
Parlamento a due forze che alzano la bandiera della lotta all’Unione europea: Movimento 5S e Lega
nella versione salviniana, apparentemente post-nordista e con l’ambizione sembrerebbe di una
proiezione nazionale in funzione anti-europea.
Questa convergenza di parole d’ordine, al di là della complessità delle differenze ideologiche e
politiche, ha una sua ragione profonda nelle conseguenze, permanenti e ripetute, della politica
deflattiva del governo Monti. La recessione 2012-14, stronca il paese, che non tornerà fino ad oggi
(unico nel G8) ai livelli pre-crisi. La crisi depressiva ovviamente colpisce il sud ma, stavolta, anche
il nord non si riprende. La crisi attraversa settori, imprese famiglie, accelera la precarizzazione dei
giovani, peggiora sistematicamente le prestazioni di welfare; si lascia dietro un radicato malessere
anti-europeo perfino in ceti relativamente abbienti. E su questo sfondo il paese deve assistere ogni
anno alla sceneggiata di governi che chiedono in ginocchio a Commissari europei arroganti di poter
sforare di qualche decimo di punto di PIL le prescrizioni ereditate dal governo Monti sul deficit di
bilancio.
Questo è lo sfondo dell’imponente crescita parallela delle due formazioni ‘populiste’ nel 2018, 5S
(+8) e Lega (+13), che le fa arrivare insieme al 51%. Questa è ovviamente solo aritmetica politica.
Ma, primo, non si può fare alcun governo diversamente, date le linee di frattura; secondo, si assiste
a un travaso imponente nel giro di un solo anno da 5S a Lega (rispettivamente – 17 e +16) che
conferma il fondo antieuropeo condiviso. E ancora più in fondo, suggerisce che le fortune dei due
gruppi siano dovute anche alla riemersione di una antica radice antipolitica tipicamente nazionale, il
qualunquismo. Sicuramente motivazione più forte nella migrazione antipolitica da destra verso 5S;
e confermata dal rientro.
Mentre nella migrazione da sinistra sono rilevanti motivi più complessi e nuovi, come la particolare
forma dell’azione politica, la novità organizzativa del partito-rete, e le parole d’ordine di
‘democrazia diretta’, e degli obbiettivi mobilitanti, in cui hanno particolare peso quelli ecologici in
senso lato. Che rinviano a mutamenti più profondi. E che si confermano anche nei sommovimenti
attuali (cito qui l’analista politico Fausto Anderlini: “I 5S perdono soprattutto in direzione della
destra e dell’astensione mentre solo una quota minore si riversa sul cosiddetto centro-sinistra plurale.
Sicché quel che residua è qualcosa dotato di una sua qualche coerenza: un melange confuso
che sta fra una ‘sinistra delusa’ e un altrove che non è di sinistra e non è di destra. Ma che in
qualche modo tiene).
Motivi in base ai quali si osserva l’emersione di movimenti che incominciano a consolidarsi a
partire dal 2016 proprio sul malessere diffuso anche se avevano avuto in precedenza punti di
partenza più generali nell’opposizione al progetto europeo su basi di sovranità nazionale sia politica
che economica. Tra questi comincia a farsi strada un’opposizione più caratterizzata a sinistra. Si
apre quindi un processo di ricomposizione di vari filoni di sovranismo costituzionale che porta,
attraverso passaggi contraddittori, alla fondazione di Nuova Direzione nel gennaio 2020.
Come si è visto, fino al 2019, nonostante il logoramento del progetto europeo su ambo i lati, ma in
modo più pericoloso sulla destra, la linea dell’austerità era stata tenuta senza oscillazioni; pur
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essendo alla radice degli innumerevoli scollamenti sociali, che avevano poi generato i suddetti
sbocchi politici. Ma il risultato politico delle europee del 2019 segnava la fine della paura maggiore
per i gruppi dirigenti europei. Nonostante, infatti, PPE e PSE (i due cardine europeisti al Parlamento
europeo), avessero perso la maggioranza assoluta, i gruppi nazionali populisti non raggiungevano la
soglia che avrebbe potuto rendere possibile anche un loro ingresso in maggioranza, o comunque di
provocare una permanente instabilità politica.
La situazione aveva fatto emergere il logoramento dell’egemonia tedesca, come si vide bene dalle
bocciature ripetute di candidati alla Presidenza della Commissione europea. L’intervento liberale
aveva mantenuto la maggioranza del progetto europeo al prezzo di uno spostamento di equilibri
europei a favore della Francia (infatti, a sorpresa, Macron, aveva preso la leadership dei liberali
europei). L’effetto più rilevante (e lo si vede soprattutto oggi) di questo spostamento fu l’elezione
della Lagarde come Presidente della BCE, frustrando il progetto tedesco di mettere un esponente
rigorista (Weidman o simile) alla guida della banca allo scopo di bloccarne le politiche monetarie
espansive.
Questo consolidamento, per quanto irto di contrasti, della leadership europea ha avuto
un’importante conseguenza in Italia: il rovesciamento della maggioranza anti-europea, che nasce
infatti politicamente con l’entrata dei 5S nella maggioranza della nuova presidente della
Commissione europea, la Von der Leyen, rompendo l’unico tratto in comune che li teneva al
governo con la lega salviniana. Il resto sono solo mosse tattiche, giuste o sbagliate. Ma la
maggioranza politica del governo finisce con quel voto europeo. Entra nel governo il pilastro
europeista della politica italiana, il PD. Anche se 5S mantengono ancora forti riserve e opposizioni
nei confronti della linea rigorista europea (soprattutto contro uno dei pilastri della riforma in atto, il
MES; cosa che sarà molto importante nel 2020).
La situazione si presenta complessa nel 2019, con segnali contraddittori. Il centro del progetto
europeo rilancia l’unificazione con ripetute iniziative comuni di Francia e Germania, e riesce a
frenare alcuni sbocchi politici ‘populisti’, in Italia, ma non in Inghilterra. Nell’area sovranista
italiana ci sono defezioni, ma il progetto di costituzione procede con il rilancio del manifesto per la
Sovranità da parte dell’area che prepara il Congresso fondativo di Nuova Direzione. Le tesi che
vengono preparate nell’estate, si muovono nella polarità tra due elementi costitutivi, la battaglia
antieuropea, ma anche la ripresa di temi storici come il socialismo con l’obbiettivo di progettare
lotte per porre fine alla ritirata senza fine delle posizioni delle classi subalterne di fronte alla
trentennale offensiva liberista. Distinguendosi in questo dalle formazioni che vedono la lotta
antieuropea come prioritaria e l’uscita dall’euro come obbiettivo (tipo CLN) cui sacrificare i temi
della lotta di classe; nella convinzione che la scollatura del consenso filo-europeo sia destinata ad
ampliarsi e a far posto a un sentimento antieuropeo di massa.
La pandemia fa esplodere questa situazione, dal lato medico, come dal lato economico. Dal lato dei
comportamenti di massa come dal lato delle misure delle autorità di governo.
La reazione immediata della linea rigorista, di fronte alla ovvia previsione dell’esplosione di deficit
e di debiti, e quindi dello sforamento di tutti i parametri di Maastrich, è stata: se qualche paese va in
difficoltà (nel senso che i mercati facciano esplodere gli spread), si faccia richiesta di intervento
congiunto BCE e MES, con le conseguenze del caso. L’apice di questo atteggiamento fu
conseguentemente la dichiarazione del membro tedesco del board della BCE, la signora Schnabel:
gli spread non ci riguardano. Dichiarazione ripresa il 12 marzo 2020 dalla Lagarde, e poi
immediatamente ritirata dopo la protesta di Mattarella (un fatto del tutto inusuale negli ultimi
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decenni; le elite italiane cominciavano a capire che una simile dichiarazione apriva una prospettiva
greca anche per loro e non solo per gli italiani).
Contemporaneamente si apriva una frattura nel Consiglio europeo con la formazione, per la prima
volta, di un gruppo di paesi che richiedevano formalmente interventi di sostegno – come gli
eurobond -, gruppo capitanato dalla Francia, contro lo schieramento, stavolta non più egemone
come in precedenza, dei paesi rigoristi. Un punto di svolta era la lettera di Draghi al FT, con la
dichiarazione che lo stato di emergenza richiedeva misure di emergenza (ovviamente la sospensione
del Patto di Stabilità) ma anche, neppur troppo implicitamente, una sua revisione. Cominciava
evidentemente a farsi strada la consapevolezza, ostinatamente rifiutata dai rigoristi, che una ‘linea
greca’ per affrontare la pandemia avrebbe sì messo in ginocchio alcuni paesi, tra cui l’Italia, ma le
conseguenze sarebbero state l’esplosione dell’euro e del progetto europeo, con grave danno della
Germania stessa.
Si assisteva così, oltre che alla sospensione del Patto di Stabilità (impossibile a rispettare date le
emergenze economiche della pandemia), al lancio del Recovery Fund (poi NGEU), da parte della
coppia Macron-Merkel, come programma di investimenti per il rilancio delle economie europee
secondo alcune linee già tradizionalmente nell’orbita comunitaria (trasformazione green e
digitalizzazione, ad esempio). Una prima novità di questo programma è il suo finanziamento
mediante eurobond (titoli cioè ‘garantiti’ dall’insieme degli Stati dell’Unione, e non dal singolo
Stato emittente). Cosa che ha sicuramente incontrato enormi ostacoli al lancio, e ancora oggi ha
visto l’intervento frenante della Corte Costituzionale tedesca (a dimostrazione che lo scontro sul
cambio linea è ancora lontano dall’essere definitivamente risolto; e che probabilmente si acuirà
nella prospettiva del rientro nel Patto e della sua modifica). Corte tedesca che era intervenuta alla
viglia del lancio del Fondo tentando proprio di vanificare l’azione parallela della BCE nel sostenere
i debiti sovrani europei con una politica monetaria espansiva esplicitamente mirata all’emergenza
pandemica.
Ma comunque il piano sta andando avanti e bisogna valutarne le conseguenze e il peso. La prima
cosa da dire è che questo è una misura che si affianca alle misure dei singoli Stati. E che quindi il
confronto diretto del Recovery con le misure di Trump e Biden (3000 + 3000 $, gli stanziamenti
complessivi) è scorretto. Quelle sono misure federali e ammontano a circa il 40% del PIL USA. I
750 miliardi di euro del Recovery da soli sono il 5% del PIL europeo (ricordando però che lo
stimolo nel 2009 fu dello 0,5%). Ma al Recovery vanno aggiunti gli stanziamenti di tutti i paesi (per
cui il Fondo è compensativo) e si arriva a circa il 20% del PIL europeo (circa 2-3000 mld). Quindi
l’entità, pur decisamente inferiore a quella USA mostra che la dirigenza europea stavolta ha capito
quantomeno di non poter giocare la partita dell’austerità (come dopo il biennio 2008-09).
Una misura, inoltre, che per quanto riguarda l’Italia ha dimensioni rilevanti: uno stimolo di oltre il
10% del PIL. Uno stimolo mai visto negli ultimi trent’anni, che quando una manovra fiscale era di
grandi dimensioni erano solo di tagli e non di spesa. Ma questa misura ha un obbiettivo politico ben
definito. Tenendo conto del logoramento del consenso nei confronti del progetto europeo in ampi
strati di popolazione e in aree cruciali, come al Nord, il piano si propone l’obbiettivo ambizioso di
riconquistarne il consenso, abbandonando la linea di sola compressione sociale tipica della strategia
dell’austerità.
Ma, ovviamente, il fondo rigorista fondativo dell’Unione non ha certo cessato di esistere. Prima o
poi bisognerà rientrare in regole fiscali comuni. Nonostante la dura discussione in corso,
inevitabilmente questo dovrà significare riduzione del deficit verso livelli di stabilità minimi di
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lungo periodo. Anche se questo avvenisse dopo che la politica di investimenti avesse prodotto
risultati, sempre tagli saranno, e quindi qualcuno ne dovrà portare il peso. La linea del Recovery
emerge quindi come una linea di divisione sociale e territoriale; che aumenterà le fratture
accrescendo disuguaglianze interne, seppure riuscirà come nei propri obbiettivi a restringere la
sfiducia nell’istituzione europea, quindi riducendo la possibile area di consenso a proposte di
antagonismo antieuropeo fino all’uscita dall’euro.
Sia ben chiaro, nonostante il Recovery, la linea di frattura tra interessi nazionali (il sovranismo
costituzionale) e il progetto europeo, persiste; e persiste, paradossalmente, proprio in ragione della
pandemia. Ci sono state sicuramente grandi carenze nazionali nell’affrontare le prime fasi
dell’epidemia, indecisioni errori macroscopici, incapacità di frenarla; ma questo è stato un
comportamento che ha investito quasi tutte le elite di governo. A questo si aggiunge un malessere
crescente, che in alcuni paesi europei ha già raggiunto soglie esplosive, per via delle doppie
conseguenze negative delle chiusure, la perdita di reddito quando non addirittura delle possibilità di
sopravvivenza, e la perdita – molto pesante – della dimensione sociale del vivere. Ma anche questo
malessere si è manifestato in quasi tutti i paesi sia della UE che in UK. Dove invece si è sempre più
palesato un vero e proprio fallimento sia dei politici che dell’onnipotente burocrazia europea nel far
fronte al loro primo dovere di fronte alla pandemia: difendere le popolazioni affidate, è stato
nell’organizzazione e attuazione delle campagne di vaccinazioni che, proprio per le mancanze
precedenti, appaiono essere diventate l’ultima sponda per un ritorno se non alla normalità a una
sopportabilità dell’epidemia. Affermazioni del tipo: o provvedete voi o ci pensiamo noi, si sono
moltiplicate in questi ultimi temi; impensabili prima. A dimostrare anche che gli stessi governi sono
preoccupati che questa incapacità delle istituzioni europee ad affrontare efficacemente la pandemia
logori l’adesione al progetto europeo, che proprio il lancio del piano di finanziamenti aveva voluto
sostenere e far crescere.
Concludendo.
Nelle tesi del congresso fondativo, Nuova Direzione aveva tenuto un atteggiamento per così dire
equilibrato rispetto ai due poli dell’azione e della propaganda dell’area del sovranismo di sinistra,
enfatizzando, a differenza di altre formazioni il lato di prospettiva socialista e quindi nell’immediato
dello scontro di classe, non escludendo la parola d’ordine dell’italexit, ma non facendone
l’esclusiva bandiera (trattandolo piuttosto come una misura di ultima istanza).
Il chiaro progetto di matrice europea di ri-conquistarsi l’adesione al progetto europeo mediante
stimoli economici di dimensioni sufficientemente ampi da modificar la situazione di gruppi non
marginali della popolazione italiana, rilancia, tenendo conto delle inevitabili fratture sociali e
territoriali che queste misure portano con se, il lato di ‘lotta di classe’ della riflessione e dell’azione
dell’Associazione, pur tenendo sempre presente lo scontro sempre attuale tra gli interessi prioritari
del popolo italiano in quanto garantiti dalla nostra sovranità, e la loro compressione di stampo
europeo.