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Il passaggio in secondo piano della questione nazionale in rapporto all’Europa ed agli Stati Uniti
propone la questione sociale al ruolo primario e prioritario.
Eppure la questione nazionale potrebbe riproporsi non solo direttamente in rapporto ai fallimenti
dell’UE di fronte alla pandemia ed alla derivante crisi di fiducia (proprio nel momento in cui si
apprestava ad una ripresa egemonica), ma dal “basso” dello svolgersi della questione sociale.
Infatti, date le divaricazioni territoriali presenti nel Paese, accentuate da anni di “costruzione
europea” in relazione gerarchica, e dato che il promesso nuovo sviluppo tecnologico pittato di
verde, di ordine continentale, tenderà a riprodurre queste divaricazione, comportando aree e settori
di sottosviluppo nella dicotomia tra un centro e differenziate periferie, la questione sociale riporterà
quella europea alla ribalta politica.
Se prima abbiamo supposto che il contrasto portato sul rapporto nazionale con l’UE, contro il
“bastone” dell’austerità e delle politiche di bilancio, consentisse il riemergere protagonista delle
classi subalterne e della classe lavoratrice al loro interno, ora supponiamo possa accadere il
processo inverso, quando si andrà alla verifica pratica di come verrà somministrata la “carota” dei
fondi europei di ristrutturazione.
L’orizzonte di più lunga durata rimane lo stesso, quella del Socialismo del XXI secolo, realizzabile
nell’unità di classe e popolare, ma le attese suscitate dal piano di Recovery vanno poste alla vaglio
effettuale in modo puntuale, andando a puntare sulle differenze tra pretese egemoniche virtuali del
racconto e la realtà del dominio nei fatti.
È fondata questa supposizione e su quali basi?
Occorre partire proprio dall’evento pandemico che ha segnato il grande spostamento.
Non sappiamo ancora quanto durerà e come ne usciremo, ma una cosa è certa: si sono sperimentate
dal vivo nuovi assetti produttivi ed una nuova organizzazione del lavoro, avviando pure una
trasformazione urbanistica. Milioni di lavoratori, di operai e di impiegati, tecnici, quadri
manageriali, professionalizzati, ne sono coinvolti, rimettendo in gioco rapporti di lavoro
“autonomi”, parasubordinati, subordinati, e terremotando assetti urbani ed extra-urbani. Per
l’ampiezza e la radicalità del fenomeno in pieno svolgimento, esso travalica l’ambito sindacale e si
propone al cimento della politica e delle idee. Cimento al quale Nuova Direzione, se vuol vivere qui
ed ora, non può sottrarsi.
Si tratta del lavoro a distanza e da casa, con quel che ne consegue.
Com’è noto abbiamo cominciato a dissodare il terreno della sua conoscenza, che certamente andrà
proseguito con costanza e puntigliosa attenzione. Dalla prima inchiesta, senza approfondire la quale
non acquistiamo diritto di parola con i soggetti investiti dalla trasformazione, innanzitutto i
lavoratori, sono emersi spetti importanti per la nostra azione.
La rapida e pur disordinata esplosione del lavoro da casa, chiamato intenzionalmente smart working

  • e se ne comprendono i motivi -, ha trascinato con sé una proporzionale crescita della nuova
    logistica delle consegne a domicilio. A fronte di poco meno di 7 milioni di persone, oltre un terzo
    dei lavoratori dipendenti italiani (circa 18 milioni), impegnati nel lavoro a domicilio (nel 2019
    erano stati 570mila), solo i fattorini in bicicletta o con motorino sono passati da 10mila ad almeno
    60mila. Poiché questi ultimi distribuiscono in prevalenza pasti della ristorazione e prodotti
    alimentari, ad essi vanno sommati i fattorini con furgone (tipo “Sorry, we missed you” raffigurato
    nel film di Ken Loach) che consegnano ogni tipo di merce al consumo. Tra questi terminali
    obbligati ha assunto un ruolo leader la logistica tipo Amazon. Lunedì 22 marzo c’è stato uno
    sciopero che ha coinvolto proprio Amazon. Nel magazzino-fabbrica della multinazionale
    nordamericana, appena più a monte delle consegne, lavora il facchino operaio in condizioni assai
    simili a quelle rappresentate nel film “Tempi moderni” di Chaplin. Ciò che sembrava scomparso
    riappare.
    Il ritorno in auge di vecchi rapporti di lavoro, riproposti in nuova veste tecnologica, è ben visibile
    anche laddove si paragonino i bici-fattorini della gig-economy agli scariolanti delle bonifiche tra
    fine Ottocento ed inizi del Novecento. Pure il lavoro da casa si pone in una china che lo porta a
    rassomigliare da vicino a quello delle tessitrici e delle cucitrici a domicilio, modalità quest’ultima
    affatto abbandonata, benché non assurga agli onori della cronaca quotidiana.
    Il movimento che portò a concentrare via via il lavoro in grandi complessi produttivi, la fabbrica
    fordista, ha subito una inversione negli “ingloriosi quaranta” del liberalismo. Grandi fabbriche sono
    state smantellate e ridotte in più piccole unità, in una catena delle forniture spesso delocalizzata su
    scala internazionale. Gli appalti hanno affidato ad aziende esterne attività e funzioni non core
    business, prima svolte all’interno di quelle principali, divenute “capo-committenti”. Benché vi siano
    segnali di crisi sia delle supply chain che dell’outsourcing (proprio nel settore logistico), ora
    assistiamo quasi al compimento del movimento di decentramento e delocalizzazione del lavoro.
    Secondo fonti ufficiali, subito dopo la pandemia i lavoratori da casa stabili supereranno i 5 milioni,
    ma c’è chi ipotizza possano già arrivare ad 8, investendo altri settori oltre a quelli dell’informazione,
    della comunicazione, della finanza e delle assicurazioni, ed altre aziende, non solo grandi e mediograndi,
    ed enti della pubblica amministrazione. In maggioranza si tratterà ancora di impiegati,
    tecnici, quadri manageriali, professionalizzati, diplomati e laureati, di donne piuttosto che uomini,
    di ruoli medi e medio alto, ma la tendenza è di includere anche i livelli più bassi.
    Per il sociologo Domenico De Masi nel lavoro da casa, in cui lui vede il ritorno al bel mondo casabottega,
    sarà coinvolto il 70% dei lavoratori.
    Alla retorica della libertà della “mobilità”, ora accusata di “frenesia”, si sostituisce quella della
    ecologica “stanzialità”. Dopo aver chiesto piena adesione al “lavoro di squadra” in compresenza
    fisica, ora si magnificano le virtù dell’opera solitaria da remoto e da domicilio, però controllata da
    appositi algoritmi nella supposta “libera” sottoscrizione degli obiettivi padronali di produttività.
    E qui veniamo ai nodi di fondo della nuova terra promessa.
    Se lo smart working è un nuovo modo di organizzare il lavoro, data la modalità a distanza e la
    impossibilità del controllo diretto “a vista” della produttività, del singolo da parte delle direzioni, la
    verifica della suo effettivo svolgimento non può che avvenire sui risultati, dunque in base alla predefinizione
    di obiettivi quantitativi e qualitativi misurabili e classificabili in un ordine
    “reputazionale” della “persona”. Quanto “liberamente accettati” e “responsabilmente condivisi”
    possiamo facilmente immaginare, se s’instaura il rapporto di forza che hanno in mente i suoi araldi.
    Si dà il caso che questa pre-definizione sia proprio quella applicata ai fattorini in bicicletta, con
    motorino o con furgone che lavorano a cottimo, la quale contempla la classificazione reputazionale
    dei singoli addetti.
    Resterebbe la differenza dell’ingaggio operativo “a chiamata”, tipica del caporalato, che tuttavia
    nella progressiva divisione amebica degli addetti, costretti alla solitudine individuale, in posizione
    debole al cospetto di un centro forte di comando centralizzato, per giunta automatico ed
    impersonale, può intervenire una precarizzazione a rendere ulteriormente “subalterne” le condizioni
    di lavoro, sempre minacciando la disoccupazione. Minaccia resa praticabile dall’allargarsi, in
    mancanza di vincolo territoriale (anche nazionale), della platea delle offerenti lavoro in libero
    mercato, o, come è annunciato, dallo sviluppo dei sistemi esperti della intelligenza artificiale.
    Nell’attuale sbocco logistico abbiamo operai fattorini che eseguono un lavoro manuale esponendosi
    a rischi evidenti per la sicurezza e la salute, mentre impiegati, tecnici, quadri manageriali e
    professional, eseguono un lavoro più intellettuale, ovvero elaborano informazioni, non certo con
    eguali problemi di salute e sicurezza. Li può accomunare lo stress.
    Ciò che accomuna e caratterizza davvero tutto il lavoro a distanza è la nuova organizzazione del
    lavoro, in forza della quale il lavoratore si trova in posizione di singolo ed isolato individuo ad
    operare in dipendenza di una piattaforma tecnologica che, per conto di un centro
    dirigente/padronale, sovraintende, ordina e controlla, tramite congegnati algoritmi, l’insieme delle
    attività ed alla sua in queste. Sottolineo la posizione di forza del centro operativo padronale e
    direzionale, rispetto alla massa dei lavoratori dispersi e comandati a distanza.
    Sul piano sindacale la risposta più appropriata si potrà situare meglio sul territorio che in ogni
    singola entità aziendale o di PA. Non a caso le Camere del Lavoro ebbero un così importante ruolo
    nel raccogliere le esigenze di autodifesa dei lavoratori dispersi ed ancora non concentrati nelle
    grandi fabbriche tayloristiche.
    Ricordiamoci dello sciopero di Genova del 1900. Noi non veniamo dal nulla. Ricordiamocene per
    cercare nel presente ogni posto e gruppo resistente, sia una vecchia osteria cooperativa o un centro
    giovanile o di mutuo soccorso agli immigrati, che voglia uscire dalla “ghettizzazione” in cui è stato
    di fatto confinato per aprirsi ai nuovi compiti.
    Sul piano politico la risposta investe leggi e norme generali dello Stato (si pensi solo al diritto alla
    disconnessione ed alla non reperibilità), ma poiché il nocciolo è di potere sui tempi di lavoro e
    liberati, dell’occupazione e della disoccupazione, in stretta connessione con la vita nei quartieri
    popolari prima ridotti a “dormitori”, che da un capo all’altro dell’Italia hanno assunto livelli diversi
    di degrado periferico, la contro-affermazione ha bisogno in quei luoghi di trovare amalgama in una
    nuova socialità.
    La nuova socialità va intesa sì come ambito di apprendimento culturale, ma soprattutto come campo
    della lotta e dell’unità di classe e popolare. Di lotta tra le strutture che organizzano la vita stessa,
    oltre il lavoro. Precisamente lotta tra una struttura organizzata dal principio della proprietà ed una
    che si vuole costruire e far prevalere, quella organizzata dal principio della socialità, nella
    condivisione dell’essere parte di un comune destino.
    Nella individuazione degli obiettivi via via da perseguire, poiché non siamo e non saremo neoluddisti
    rispetto alla nuova frontiera tecnologica, da cui vorremmo i possibili vantaggi, dovremmo
    seguire un ordine tattico da declinare in questo modo: laddove il nostri nemici vogliono crearsi una
    opportunità, noi opporremo un problema; noi vedremo una opportunità, dove loro vedono un
    problema.
    Un esempio: se la loro opportunità è costituita dalla “glovizzazione” del lavoro da casa, per noi sarà
    di contrastarlo al massimo; se il loro problema è quello che i lavoratori non amino il lavoro in
    solitudine e da casa, per noi questo “disamore” sarà una opportunità. Magari – è solo una proposta –
    quella di allestire, nei luoghi di residenza e vita, sedi adeguate di co-lavoro aperti, pubblicamente
    gestiti ed adeguatamente attrezzati e connessi, da far pagare, tramite una “smart working tax” (così
    sono in linea con la moda degli inglesismi), a chi trae profitto dallo smantellamento dei vecchi
    laboratori ed uffici. Una tassa che dovrebbe garantire da subito la connessione libera e gratuita
    anche a chi preferisse starsene a lavorare da casa.
    La nuova socialità da perseguire non può disgiungere la lotta dei lavoratori da quella popolare e
    dunque la loro unità, proprio perché viene a situarsi nella vita di quartiere (dove “loro” vedono un
    problema sorgente). Inoltre, in seguito alla pandemia l’altro grande cimento, oltre alla
    trasformazione del lavoro, è quello della salute e della sanità, legato ad una reale transizione
    ecologica.
    Si è potuto constatare quali perniciose conseguenze abbia comportato l’adozione, effettuata in gradi
    e modi diversi grazie alla disgraziata regionalizzazione (titolo IV della riforma costituzionale), della
    linea liberalistica delle privatizzazioni e delle “eccellenze” dei grandi ospedali. La situazione
    lombarda “più avanzata” è l’emblema del maggiore fallimento.
    La contro-affermazione di una sanità prioritariamente affidata alla prevenzione, piuttosto che alla
    cura farmaceutica ed ospedaliera, di prossimità diffusa sul territorio, piuttosto che centralizzata nel
    rimedio a posteriori che ingrassa Big Pharma ed i centri diagnostici e di cura privati, viene a situarsi
    proprio nella vita dei quartieri popolari urbani ed extra-urbani. Interlocutori privilegiati i lavoratori
    della sanità.
    Nell’ordine delle priorità sulle quali concentrare in profondità il nostro impegno vedo dunque lavoro
    e sanità, con un ruolo essenziale affidato alla lotta ideologico-culturale.
    In parallelo con la lotta sindacale e politica, per dotarla dei necessari strumenti analitici, va condotta
    quella enunciata al primo punto da Mimmo Porcaro all’Assemblea fondativa. In riferimento a come
    concepire il “progresso” in relazione alla introduzione delle nuove tecnologie ed al concetto di
    “sviluppo”.
    Questo ultimo tema, data la forte connotazione territoriale del cimento conflittuale, andrebbe
    articolato, nella situazione concreta, nel discorso sulle “dipendenze”, in seno dunque ai rapporti
    capitalistici che cambiano e che divaricano le condizioni sociali del Paese. Proprio la
    ristrutturazione in corso annuncia uno “sviluppo che implica aree e realtà di sottosviluppo”. In altri
    termini ripresenta uno dei cardini della “questione nazionale”, come noi l’abbiamo intesa.
    Un’ultima annotazione. Se vogliamo essere seme ci dovremo negare nel germogliare della pianta.
    Per contaminazione anche un seme piantato ai bordi di un campo fertile, apparentemente a sé stante,
    può essere funzionale al sorgere del nuovo “ibridandolo”, come avviene in natura. Non sappiamo
    ancora come andrà. In ogni caso, senza presunzione, il cimento qui definito ci indica la necessità di
    una verifica nella pratica delle unificazioni possibili con le forze alle quali ci sentiamo vicini. Nella
    pratica perché, benché il terreno del confronto teorico vada rafforzato conducendolo possibilmente
    in modo collettivo, in questo “calarci” passa il riscontro se siamo nella giusta direzione in cui
    unificarci non solo “a parole”.
    Non lo impone una astratta congettura, ma l’urgenza di una presenza socialista significativa nello
    svolgersi della fase politica in corso, che coinvolge il lavoro e la vita di così tanta parte della classe
    e del popolo ai cui interessi facciamo riferimento ed alla quale sentiamo di appartenere.
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