Tratto da “Debito: I primi 5000 anni” David Greabert
Se l’opera di Platone (“La Repubblica”) testimonia quanto profondamente la confusione morale introdotta dal debito abbia dato forma alla nostra tradizione di pensiero, il diritto romano rivela quanto sia stata fondamentale anche per le istituzioni che ci sono più familiari. Il giurista tedesco Rudolf von Jhering osservò che l’antica Roma aveva conquistato il mondo tre volte: la prima attraverso i suoi eserciti, la seconda attraverso la sua religione e la terza attraverso le sue leggi.91 Avrebbe potuto aggiungere: ogni volta un po’ di più. L’impero, dopo tutto, occupava solo una piccola porzione del globo: la Chiesa cattolica romana si è estesa oltre. Il diritto romano ha fornito il linguaggio e gli strumenti concettuali degli ordinamenti legali e costituzionali di ogni continente. Gli studenti di diritto dal Sudafrica al Perú sanno di dover trascorrere grossa parte del loro tempo a memorizzare termini tecnici in latino ed è il diritto romano a fornire quasi tutti i concetti di base su contratti, obbligazioni, atti illeciti, proprietà e giurisdizione e, in senso più ampio, sulla cittadinanza, i diritti e le libertà su cui si fonda la vita politica. Questo è stato possibile, sostiene Jhering, perché i romani furono i primi a trasformare la giurisprudenza in scienza pura. Forse questa è solo un’ipotesi, ma è vero che il diritto romano contiene alcuni tratti piuttosto cavillosi, alcuni così strani da confondere e disorientare i giuristi, anche perché il diritto romano è stato rielaborato nelle università italiane durante l’Alto Medioevo. Il più famoso di questi tratti bizzarri è la maniera particolare in cui definisce la proprietà. Nel diritto romano, la proprietà, o dominium, è una relazione tra una persona e una cosa, caratterizzata dal potere assoluto di quella persona su quella cosa. Questa definizione ha provocato una serie sterminata di problemi concettuali. Prima di tutto non è chiaro che cosa significhi per un essere umano avere una «relazione» con un oggetto inanimato. Gli esseri umani possono avere relazioni gli uni con gli altri. Ma cosa vuol dire avere una «relazione» con una cosa? E se qualcuno ha tale relazione, che cosa significa dare a quella relazione un fondamento legale? Sarà sufficiente un semplice esempio: immaginiamo un uomo rimasto da solo su un’isola deserta. Potrebbe sviluppare delle relazioni estremamente personali, per esempio, con le palme che crescono su quell’isola. Se è lì da troppo tempo, potrebbe ritrovarsi a dare un nome alle palme e trascorrere metà del suo tempo impegnato in conversazioni immaginarie con loro. Ma è il loro proprietario? La domanda è assurda. Non c’è alcun bisogno di preoccuparsi dei diritti di proprietà quando si è soli in un posto.
Allora è chiaro che la proprietà non è veramente una relazione tra persona e cose, ma un accordo, un’intesa tra persone a proposito di cose. L’unica ragione per cui talvolta non ce ne rendiamo conto è che in molti casi – in particolare quando parliamo dei diritti che accampiamo sulle scarpe, sugli attrezzi elettrici o sulle macchine – stiamo parlando di diritti che deteniamo, come sostiene il diritto inglese, «contro tutto il mondo», ovvero che si tratta di un accordo tra noi stessi e chiunque altro sul pianeta, che tutti si asterranno dall’interferire con i nostri beni e pertanto ci permetteranno di disporne, più o meno, come vogliamo. Una relazione tra una persona e tutti gli altri sul pianeta è, com’è comprensibile, difficile da concepire in queste forme. È più facile immaginarla come una relazione con una cosa. Ma anche così, in pratica questa libertà di fare ciò che ci piace si dimostra ancora piuttosto limitata. Sostenere che il fatto che possedere una sega a motore mi dia il «potere assoluto» di farci quel che voglio, è ovviamente assurdo. Tutto quel che potrei fare con una motosega fuori da casa mia o dal mio terreno è formalmente illegale ed esiste solo un numero limitato di cose che io potrei fare legalmente con la mia motosega anche dentro casa mia. L’unica cosa «assoluta» a proposito dei miei diritti su una motosega è il mio diritto di escludere chiunque altro a parte me dal farne uso.92
Nondimeno, il diritto romano sostiene che la forma base della proprietà sia la proprietà privata, e che la proprietà privata sia il potere assoluto del proprietario di fare tutto quel che vuole dei suoi beni. I giuristi medievali del XII secolo arrivarono a sistematizzare tutto ciò secondo tre principi, l’usus (l’uso di un bene), il fructus (il godimento dei prodotti di quel bene) e l’abusus (l’abuso o la distruzione di quello stesso bene). Ma i giuristi romani non erano neanche interessati a specificare così tanto le cose, dal momento che in un certo modo consideravano certi dettagli già al di fuori del dominio della legge. In effetti, gli studiosi hanno speso un mucchio di tempo a discutere se gli autori romani considerassero veramente la proprietà privata un diritto (ius),93 per la ragione stessa che i diritti erano in ultima analisi fondati su accordi tra persone, cosa che non valeva per il potere di disporre della propria proprietà: era solo la capacità naturale di un individuo di fare ciò che voleva in assenza d’impedimenti sociali.94
A pensarci bene, questo libro è un posto un po’ strano per cominciare a sviluppare una teoria del diritto della proprietà. Basti dire che in qualsiasi parte del mondo, in qualsiasi periodo storico, nell’antico Giappone o a Machu Picchu, chiunque avesse un pezzo di corda era libero di avvolgerla, di annodarla, di distruggerla o di gettarla nel fuoco, se ne aveva l’intenzione. Nessun teorico legale ha mai trovato questo fatto interessante o importante. Di sicuro nessun’altra tradizione ne ha fatto la base del diritto di proprietà, dal momento che tutto sommato questo ridurrebbe tutte le altre leggi a poco più di una serie di eccezioni.Com’è successo tutto questo? E perché? La spiegazione più convincente che ho trovato è quella di Orlando Patterson: l’idea della proprietà privata deriva dalla schiavitù. Si può immaginare la proprietà non come una relazione tra persone, ma come una relazione tra una persona e una cosa, se il proprio punto di partenza è una relazione tra due persone, una delle quali è una cosa. (Questaè la maniera in cui venivano definiti gli schiavi nel diritto romano: persone che erano anche res, cioè cose.)95 In questo senso inizia ad avere un suo significato anche l’enfasi sul potere assoluto.96 La parola dominium, riferita alla proprietà privata assoluta, non era particolarmente antica.97 Appare in latino solo nella tarda repubblica, proprio attorno all’epoca in cui centinaia di migliaia di lavoratori coatti cominciarono a riversarsi in Italia, quando pertanto Roma stava diventando una vera e propria società schiavista.98 Intorno al 50 a.C. gli autori romani davano per scontato che i lavoratori fossero proprietà di qualcuno: questo valeva sia per i contadini che raccoglievano piselli nelle piantagioni di campagna, sia per i mulattieri che portavano gli stessi piselli nei negozi di città, sia infine per i contabili che ne registravano la quantità. L’esistenza di milioni di creature che al tempo stesso erano persone e cose creò innumerevoli problemi legali e gran parte del genio creativo del diritto romano è stato impiegato nello studio delle infinite ramificazioni teoriche implicate da questa associazione. Basta aprire a caso un repertorio commentato di diritto romano per farsene un’idea. Leggiamo le parole del giurista Ulpiano, del II secolo: Se taluno, nel giocare a palla con altri, abbia dato a questa un colpo troppo forte, facendola ricadere sulle mani di un barbiere, e lo schiavo che il barbiere stava radendo abbia avuto la gola tagliata dal rasoio, Mela scrive che quello fra loro che sia in colpa sarà imputabile in base alla legge Aquilia. Proculo sostiene la colpa del barbiere; e certo se egli si è posto a radere in un luogo dove si era soliti giocare o dove il transito era frequente, è il caso di fargliene una colpa; benché non sia neppure scorretto l’affermare che colui il quale si affidi a un barbiere che abbia posizionato la sua sedia in luogo pericoloso debba imputare a se stesso il male che ne può venire.99In altre parole, il signore non può pretendere danni civili contro i giocatori o contro il barbiere per aver distrutto la sua proprietà, se il vero problema era che aveva comprato uno schiavo stupido. Questi dibattiti possono colpirci per la loro bizzarria – puoi essere accusato di furto per aver convinto uno schiavo a fuggire? E se qualcuno ha ucciso uno schiavo che era anche tuo figlio, si possono prendere in considerazione quei sentimenti verso di lui nel conteggio dei danni o quel che conta è solo il suo valore di mercato? –, ma è proprio su questi dibatti che si basa la nostra tradizione giuridica.100
La parola dominium deriva da dominus, ovvero «signore», cioè «proprietario di schiavi», ma in ultima analisi rimanda a domus, «casa». Ovviamente c’è un collegamento con il termine «domestico», che anche adesso può essere usato sia per riferirsi alla «vita privata» sia per indicare il servo che pulisce la casa. Il significato di domus si sovrappone a volte a quello di familia ma – forse potrebbe interessare ai sostenitori dei «valori della famiglia» – «famiglia» deriva dalla parola famulus, che significa «schiavo». La famiglia era in origine il gruppo di persone sottoposte all’autorità domestica di un pater familias, e quell’autorità era concepita come assoluta, almeno nell’antico diritto romano.101 Un uomo non aveva il potere assoluto sulla moglie, dal momento che questa era ancora in certo modo sotto la protezione di suo padre, ma i figli, gli schiavi e altri dipendenti erano a sua disposizione per tutto ciò che voleva e almeno nel primo diritto romano il pater familias era libero di frustarli, torturarli o venderli. Un padre poteva addirittura giustiziare i propri figli, nel caso che questi avessero commesso dei crimini capitali.102 Con i suoi schiavi, non aveva neanche bisogno di quella giustificazione.I giuristi romani crearono il concetto di dominium e poi il principio moderno della proprietà privata assoluta, quindi estesero il principio di autorità domestica, di potere assoluto sulle persone definendo una parte di queste persone (gli schiavi) come cose, infine allargarono il dominio di quella logica che un tempo si applicava solo agli schiavi anche alle oche, ai carri, ai granai, alle scatole dei gioielli ecc, ovvero a ogni tipo di cosa con cui la legge avesse a che fare.Anche nel mondo antico era abbastanza straordinario che un padre avesse il diritto di giustiziare i suoi schiavi, per non parlare dei figli. Non si capisce perché gli antichi romani fossero così estremi al riguardo. Ma è significativo che le antiche leggi romane sul debito fossero ugualmente eccezionali per la loro durezza, dal momento che concedevano ai creditori il diritto di giustiziare i debitori insolventi.103 La storia antica di Roma, come le storie delle antiche città-stato greche, fu una continua lotta politica tra creditori e debitori fino a quando l’élite romana alla fine concepì un principio che altre élite mediterranee di successo avevano già appreso: una classe di contadini liberi significava un esercito più efficace, il quale a sua volta avrebbe fornito prigionieri di guerra capaci di fare tutto ciò che facevano i debitori insolventi ridotti in cattività e pertanto era nel loro interesse trovare un compromesso sociale, ovvero permettere una limitata rappresentatività popolare, bandire la schiavitù del debito e incanalare alcune delle entrate dell’impero in programmi di welfare sociale. Probabilmente il potere assoluto dei padri si sviluppò all’interno della società romana nella stessa maniera che abbiamo visto altrove. La schiavitù per debiti ridusse le relazioni familiari a relazioni di proprietà, mentre le riforme sociali mantenevano il nuovo potere dei padri ma li proteggevano dai debiti. Al tempo stesso, l’aumentato afflusso di schiavi significò che ogni casa abbastanza prospera indubbiamente poteva ospitare degli schiavi: la logica della conquista si estendeva fino a raggiungere gli aspetti più intimi della vita quotidiana. I vinti versavano l’acqua nel bagno e acconciavano i capelli, se erano educatori, insegnavano ai fanciulli la poesia. Dal momento che gli schiavi erano sessualmente a disposizione dei padroni e dei loro familiari, ma anche dei loro amici e ospiti, è probabile che le prime esperienze sessuali di molti romani avvenissero con un ragazzo o una ragazza la cui condizione sociale corrispondeva a quella di nemico sconfitto.104Nel corso del tempo, questo divenne soprattutto una finzione giuridica: i veri schiavi erano quasi sempre poveri venduti dai loro genitori, sfortunati sequestrati da pirati o banditi, barbari delle zone di frontiera dell’impero divenuti vittime di guerra o di processi giudiziari, o figli di altri schiavi.105 Ma la finzione veniva conservata. Ciò che rese tanto inusuale la schiavitù romana, in termini storici, fu l’unione di due fattori. Uno era la sua arbitrarietà. In drammatico contrasto con la schiavitù delle piantagioni americane, per fare un esempio, non c’era alcuna idea d’inferiorità delle persone a giustificazione della schiavitù. Essa era considerata una disgrazia che poteva capitare a chiunque.106 Pertanto non c’era motivo per cui uno schiavo non potesse essere superiore al suo signore: più bello, con un più elevato senso della moralità, con migliori gusti o una più elevata comprensione della filosofia. Il padrone poteva anche ammetterlo. Non c’era alcuna ragione per non farlo, dal momento che questo non aveva effetti sulla natura della loro relazione, che era semplicemente una relazione di potere.
Il secondo fattore riguarda la natura assoluta di questo potere. C’erano molti posti in cui gli schiavi erano concepiti come prigionieri di guerra e i padroni come vincitori con un potere assoluto di vita e di morte, ma di solito questo era solo un principio astratto. Quasi dappertutto, i governi si dettero subito da fare per limitare tali diritti. Perlomeno, gli imperatori e i re sostenevano che gli unici ad avere il potere di mettere a morte qualcuno erano loro.107 Ma nella repubblica romana non c’erano imperatori e se c’era un corpo sovrano questo era il corpo collettivo dei proprietari di schiavi. Solo durante il primo impero vediamo davvero una legislazione che limita la libertà dei proprietari di disporre delle loro proprietà umane, a partire da una legge dell’epoca dell’imperatore Tiberio (16 d.C.) che dichiarava che un signore doveva ottenere il permesso di un magistrato prima di ordinare che uno schiavo venisse pubblicamente divorato dalle bestie feroci.108 Ma la natura assoluta del potere del padrone – il fatto che in questo contesto egli fosse veramente lo stato – significava anche che inizialmente non c’erano limiti rispetto all’affrancamento di uno schiavo o a ogni altra manomissione della relazione di schiavitù: un padrone poteva liberare il suo schiavo o anche adottarlo, e a quel punto – dal momento che la libertà non significava nulla al di fuori dell’appartenenza a una comunità – quello schiavo diventava automaticamente un cittadino romano. Ciò portò a una situazione inusuale. Nel I secolo d.C., per esempio, non era infrequente che un greco colto venisse venduto in schiavitù a un ricco romano che aveva bisogno di un segretario. Lo schiavo poteva affidare il denaro a un amico intimo o un familiare e poi, dopo un certo tempo, ricomprare la propria libertà ottenendo la cittadinanza romana. Questo nonostante il fatto che, durante il tempo trascorso come schiavo, se il suo padrone decideva di tagliargli un piede, legalmente aveva il diritto di farlo.109
Il rapporto fra dominus e schiavo portò quindi a una relazione di conquista, di potere politico assoluto all’interno delle mura domestiche (di fatto, questa relazione divenne l’essenza stessa della vita domestica). Bisogna mettere in evidenza che questo non era un rapporto morale per nessuna delle parti in causa. Una nota formula legale, attribuita a un avvocato della repubblica chiamato Quintus Haterius, lo afferma con particolare chiarezza. Sia tra i romani sia tra gli ateniesi, subire una penetrazione sessuale era considerato indegno di un cittadino maschio. Difendendo un liberto accusato di continuare a fornire favori sessuali al suo vecchio padrone, Haterius coniò un aforisma che in seguito divenne una sorta di aneddoto popolare: impudicitia in ingenuo crimen est, in servo necessitas, in liberto officium, ovvero che «l’impudicizia è un crimine per i liberi, una necessità per gli schiavi, un dovere per i liberti».110
È significativo il fatto che l’arrendevolezza sessuale fosse considerata «un dovere» solo per i liberti. Non era un dovere dello schiavo, perché la schiavitù non era una relazione morale: il padrone aveva il diritto fare quel che voleva e lo schiavo non poteva farci niente. Ma l’effetto più insidioso della schiavitù romana è che attraverso il diritto romano ha devastato la nostra idea di libertà umana. Il significato della parola latina libertas è cambiato drammaticamente nel corso del tempo. Ovunque nel mondo antico essere «liberi» voleva dire soprattutto non essere schiavi. Dal momento che la schiavitù significava soprattutto la distruzione dei legami sociali e della capacità di formarli, «libertà» implicava la possibilità di creare e conservare impegni morali con gli altri. La parola inglese free, per esempio, deriva dalla radice germanica che significa friend, perché essere libero vuol dire essere capace di avere amici, di mantenere le promesse, di vivere all’interno di una comunità di uguali. Per questo gli schiavi liberati a Roma diventavano cittadini: essere liberi, per definizione, significava essere radicati in una comunità civica, con tutti i diritti e le responsabilità che ne derivavano.111
Ma a partire dal II secolo d.C. ciò iniziò a cambiare. I giuristi lentamente ridefinirono la libertas fino al punto da renderla indistinguibile dal potere del padrone. Era il diritto di fare assolutamente qualsiasi cosa, con l’eccezione di tutto quel che non si poteva fare. In realtà, nel Digestum, le definizioni di libertà e di schiavitù sono contigue:La libertà è la facoltà naturale di fare quel che si vuole allorché questo non sia vietato dalla forza o dalla legge. La schiavitù è un istituto conforme allo ius gentium per cui una persona diviene proprietà privata (dominium) di un’altra, in maniera contraria alla natura.112
I commentatori medievali si resero subito conto di un problema.113 Questo non implica forse che tutti siano liberi? In fondo, anche gli schiavi sono liberi di fare tutto quel che è loro permesso. Dire che uno schiavo è libero (a parte che non è vero) è un po’ come dire che la Terra è piatta (a parte che è rotonda) o che il sole è blu (a parte che è giallo) o che ancora una volta abbiamo il diritto assoluto di fare quel che vogliamo con la nostra sega a motore (a parte quelle cose che non possiamo fare).
In effetti questa definizione apre la porta a tutta una serie di complicazioni. Se la libertà è naturale, allora di sicuro la schiavitù è innaturale, ma se la libertà e la schiavitù sono solo una questione di gradi, allora logicamente non sono forse tutte le restrizioni della libertà in certo modo innaturali? Ciò non implica forse che la società, le regole sociali, di fatto anche i diritti di proprietà siano allo stesso modo innaturali? Sono queste le conclusioni a cui arrivarono molti giuristi romani quando si spinsero a commentare tali tematiche astratte, cosa che avvenne di rado. In origine, gli esseri umani vivevano nello stato di natura in cui tutte le cose erano tenute in comune. Poi la guerra ha diviso il pianeta con le conseguenti «leggi delle nazioni», lo ius gentium, le consuetudini comuni con cui l’umanità ha regolato faccende come la conquista, la schiavitù, i trattati e i confini, che erano responsabili anche delle disuguaglianze di proprietà.114
Questo significò inoltre che non c’era una differenza caratteristica tra la proprietà privata e il potere politico, almeno fino a quando quel potere si basò sulla violenza. Con il passare del tempo, gli imperatori romani cominciarono anche a sostenere qualcosa come il dominium, affermando che all’interno dei loro domini avevano la libertà assoluta (e in effetti non erano vincolati dalle leggi).115 Al tempo stesso, la società romana passò da una repubblica di proprietari di schiavi a un sistema che assomigliava sempre più a quello successivo dell’Europa feudale, con magnati che vivevano nelle loro grandi proprietà circondati da dipendenti, contadini, servi indebitati e una varietà infinita di schiavi, con cui facevano praticamente quel che volevano. Le invasioni barbariche che rovesciarono l’impero si limitarono a formalizzare la situazione, eliminando in gran parte la schiavitù intesa come proprietà, ma introducendo al tempo stesso l’idea che le classi nobili discendessero dai conquistatori germanici e la gente comune fosse in condizione servile nei loro confronti.
Ma il concetto romano di libertà sopravvisse anche nel nuovo mondo medievale. La libertà non era altro che il potere. Quando i teorici politici medievali parlavano di «libertà», si riferivano di solito al diritto di un padrone di fare quel che voleva all’interno dei suoi domini. Ancora una volta non si trattava del frutto di un accordo ma di un semplice fatto di conquista: una famosa leggenda inglese sostiene che quando, attorno al 1290, re Edoardo I chiese ai suoi nobili di produrre dei documenti per dimostrare con quale diritto detenessero le loro franchigie (o «libertà»), il conte Warenne gli mostrò soltanto una spada arrugginita.116 Come il dominium romano, quel che contava era più il potere che il diritto, e quel potere veniva esercitato soprattutto sulle persone (per questo nel Medioevo si faceva comunemente riferimento alla «libertà della forca», per indicare il diritto del signore di conservare il suo luogo privato per le esecuzioni).
Al tempo in cui il diritto romano cominciò a essere riscoperto e modernizzato nel XII secolo, il termine dominium pose un problema particolare, dal momento che, nel latino ecclesiastico comune all’epoca, veniva usato alla stessa maniera per «proprietà privata» e «potere signorile». I giuristi medievali trascorsero parecchio tempo a discutere se ci fosse una differenza tra le due. Si trattava di un problema particolarmente spinoso: se i diritti di proprietà erano veramente, come voleva il Digestum, una forma di potere assoluto, era molto difficile capire in che modo qualcuno che non fosse un re (o secondo altri giuristi, dio) potesse detenerlo.117
Questo non è il luogo per dilungarsi su certi ragionamenti, ma credo che sia importante essere arrivati fin qui poiché ci permette di chiudere il cerchio e di comprendere perché liberali come Adam Smith riuscirono a concepire il mondo in una data maniera. C’è una tradizione che vuole che la libertà sia essenzialmente il diritto di fare quel che si vuole con la propria proprietà. Di fatto non rende solo la proprietà un diritto: tratta i diritti come una forma di proprietà. In un certo modo, è un grande paradosso. Siamo così abituati all’idea di «avere» dei diritti – che i diritti sono qualcosa che si possiede –, che di rado pensiamo al significato di questa espressione. Di fatto (e i giuristi medievali ne erano ben consapevoli) il diritto di un uomo è semplicemente il dovere di un altro. Il mio diritto di parola è il dovere di un altro di non punirmi per quel che dico. Il mio diritto a un processo equo è una responsabilità del governo di garantire un sistema di equità. Il problema è lo stesso dei diritti di proprietà: quando parliamo di impegni dovuti da qualcuno verso un mondo, è difficile esprimersi in questa maniera. È molto più facile parlare di «avere» diritti e libertà. Ma se la libertà è fondamentalmente il nostro diritto di possedere le cose o trattarle come se le possedessimo, allora che cosa significa «possedere» la libertà? Non significa forse che il nostro diritto a possedere la proprietà è esso stesso una forma di proprietà? Si tratta di un ragionamento eccezionalmente contorto: per quale ragione definire le cose in questo modo?118
Da un punto di vista storico, c’è una risposta semplice, anche se in certo modo provocatoria. Chi ha sostenuto che siamo possessori naturali dei nostri diritti e della nostra libertà lo ha fatto per garantire che fossimo liberi di rivenderglieli.
L’idea moderna dei diritti e delle libertà si ispira alla «teoria dei diritti naturali» e a quel lavoro messo in opera da quando Jean Gerson, rettore dell’Università di Parigi, cominciò a rielaborare i concetti del diritto romano. Richard Tuck, tra i più importanti storici di questa idea, ha osservato da tempo che una delle grandi ironie della storia è che essa è costituita da un corpo di teorie abbracciate non dagli elementi progressisti dell’epoca, ma da quelli conservatori. «Per un gersoniano, la libertà era una proprietà e poteva essere scambiata allo stesso modo e nelle stesse forme di una qualsiasi altra proprietà.» La libertà si poteva vendere, scambiare, prestare o anche concedere volontariamente.119 Ne conseguiva che non c’era niente di male nella schiavitù per debiti o anche nella schiavitù nuda e cruda. E i teorici dei diritti naturali arrivarono proprio a fare queste dichiarazioni. Infatti, nei secoli successivi, queste idee si svilupparono soprattutto a Lisbona e Anversa, città al centro della nuova tratta degli schiavi. Dopotutto, sostenevano, non sappiamo che cosa stia veramente succedendo nelle terre all’interno di posti come Calabar, ma non c’è una ragione particolare per ritenere che la gran parte dei carichi umani trasportati dalle navi europee non si sia messa volontariamente in vendita o sia stata resa disponibile dai suoi guardiani legali, o che infine abbia perso la propria libertà in altre maniere perfettamente legittime. Senza dubbio – si diceva – questo non sarà stato valido per tutti, ma qualche abuso esiste in ogni sistema. L’aspetto importante è che non si vedeva niente di innaturale o illegittimo nell’idea che la libertà potesse essere venduta.120
In breve, simili ragionamenti vennero utilizzati per giustificare il potere assoluto degli stati. Thomas Hobbes fu il primo a sviluppare questa riflessione nel XVII secolo, ma presto divenne un luogo comune. Lo stato era sostanzialmente un contratto, una sorta di accordo d’affari in cui i cittadini volontariamente rinunciavano ad alcune delle loro libertà naturali a favore del sovrano. Alla fine, idee simili sono diventate la base per l’istituzione più importante dell’attuale vita economica: il lavoro salariato, che in effetti è la messa in affitto della nostra libertà nella stessa maniera in cui la schiavitù ne era la vendita.121
E non solo possediamo le nostre libertà: la stessa logica è stata applicata anche ai nostri corpi, trattati, in tal senso, allo stesso modo di case, automobili o mobili. Noi possediamo noi stessi, pertanto chi sta fuori non ha il diritto di violare la nostra proprietà.122 Tutto questo può sembrare innocuo, addirittura positivo, ma le cose appaiono differenti se si prende in considerazione la tradizione romana della proprietà su cui si basa il ragionamento. Sostenere che possediamo noi stessi è, strano a dirsi, rappresentare noi stessi simultaneamente come padroni e come schiavi. «Noi» siamo sia i proprietari (esercenti il potere assoluto sulla proprietà) sia la cosa posseduta (in quanto oggetti di un potere assoluto). L’antica casa romana non è stata dimenticata nelle nebbie della storia, ma è conservata nell’idea più fondamentale che abbiamo di noi stessi e, ancora una volta, come nel diritto di proprietà, il risultato è così strano e incoerente da provocare innumerevoli paradossi nel momento in cui si cerca di immaginare che cosa significhi in pratica. Così come gli uomini di legge hanno trascorso migliaia di anni cercando di dare un senso al concetto di proprietà nel diritto romano,così i filosofi hanno dedicato secoli per capire come potessimo avere una relazione di dominio su noi stessi. La soluzione più popolare – sostenere che ognuno di noi ha qualcosa chiamata «mente», completamente separata da un’altra cosa, che definiamo «corpo», e che la prima detiene il dominio naturale sul secondo – disobbedisce apertamente a tutto quel che sappiamo oggi grazie alle scienze cognitive. Evidentemente è falsa, ma continuiamo in ogni caso a tenerci stretta questa teoria, per la semplice ragione che senza di essa nessuno dei nostri luoghi comuni quotidiani su proprietà, legge e libertà avrebbe più senso.123
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91 Ghazali, in Ghazanfar e Islahi, 1997, p. 32.
92 Ivi, p. 35. Sui postini nell’islam medievale: Goitein, 1964. Qui la posizione di Ghazali ricorda, ed è senza dubbio influenzata da, quella di Aristotele nell’EticaNicomachea (1121b): poiché la moneta è una convenzione sociale creata per facilitare gli scambi, dirottarla all’usura va contro il suo scopo; ma la sua tesi più profonda è piuttosto diversa, più vicina a quella di Tommaso d’Aquino secondo cui la moneta è in sostanza una misura, e l’usura distorcerebbe questa misura; e a quella di Henry di Ghent per cui «la moneta nello scambio è un mezzo, non un fine» – il fatto è scontato, poiché Tommaso era influenzato direttamente da Aristotele (Ghazanfar, 2000).
93 Qui è difficile esagerare. Anche la famosa «curva di Laffer», usata dall’amministrazione Reagan negli anni ottanta per sostenere che una riduzione delle tasse aumenterebbe gli introiti governativi stimolando l’attività economica, è spesso chiamata curva Khaldun-Laffer perché fu proposta per la prima volta, come principio generale, nel Muqaddimah di Ibn Khaldun nel 1377.
94 Goitein (1957) per l’ascesa della «borghesia mediorientale».
95 Un «abbassamento» funzionava di fatto come un aumento delle tasse, perché a questo punto servivano più scudi per pagare una somma fissata in denaro. Poiché erano fissati in lire, soldi e denari, questa manovra alzava anche i salari, quindi era molto popolare. Un «alzamento» invece abbassava il valore effettivo dell’unità di conto. Questo poteva essere utile per ridurre i debiti personali del sovrano o dei suoi alleati, che erano misurati in queste unità di conto, ma riduceva il reddito e dei salariati e di chiunque avesse uno stipendio fisso, quindi era una misura che spesso incontrava l’opposizione popolare.
96 Langholm, 1979; Wood, 2002, pp. 73-76.
97 Sulla letteratura patristica sull’usura: Maloney, 1983; Gordon, 1989; Moser, 2000; Holman, 2002, pp. 112-26; Jones, 2004, pp. 25-30.
98 Matteo 5,42.
99 San Basilio, HomiliaII in Psalmum XIV, trad. it. Omelie sui salmi, 1965, p. 81.
100 Ivi, p. 82.
101Ibid.
102 Sant’Ambrogio, De Officiis II, 25, p. 89.
103 Sant’Ambrogio, De Tobia 15, 25. Vedi Nelson, 1949, pp. 3-5; Gordon, 1989, pp. 114-18.
104 Anche se non interamente. Vale la pena notare che in quel periodo gli schiavi erano forniti all’impero principalmente dalle popolazioni barbare germaniche, ridotti in questo stato da guerra o debiti.
105 «Se ognuno» scrisse «dopo aver preso dai suoi possedimenti tutto quello che gli serve per soddisfare i suoi bisogni, lasciasse il superfluo a quelli a cui manca il necessario, non ci sarebbero né ricchi né poveri» (In Illiud Lucae 49d) – lo stesso Basilio un tempo era un aristocratico, ma vendette tutte le sue terre, distribuendo i proventi ai poveri.
106Homilia II in Psalmum XIV. Il riferimento è a Proverbi 19,17.
107Summa 8.3.1.3: «Poiché la grazia è data liberamente, esclude l’idea di debito. In nessun senso il debito implica che Dio debba qualcosa a un’altra creatura».
108 Clavero (1986) vede questo come un conflitto di base sulla natura del contratto, e quindi sul piano legale delle relazioni umane nella storia europea: l’usura, e per estensione il profitto, fu messa al bando, ma l’affitto, la base delle relazioni feudali, non fu mai messo in discussione.
109 Gordon, 1989, p. 115. «Cos’è il commercio» scrisse Cassiodoro (485-585) «se non voler vendere a caro prezzo merci che possono essere comprate a poco? Quindi questi mercanti sono detestabili, senza alcuna considerazione della giustizia di Dio, riempiono le loro merci più di spergiuro che non di valore. Il Signore li ha cacciati dal Tempio dicendo “non fate della casa di mio Padre una tana di ladri”» (in Langholm, 1996, p. 454).
110 Sulla tradizione giuridica ebraica dell’usura, vedi Stein, 1953, 1955; Kirschenbaum, 1985.
111 Poliakov, 1977, p. 21.
112 Nelson (1949) ipotizza che l’«Eccezione» fosse applicata spesso anche alle relazioni tra cristiani ed ebrei, ma Noonan (1957, pp. 101-02) afferma che era applicata principalmente solo a «eretici e infedeli, in particolare i saraceni», mentre secondo altri non si applicava nemmeno a loro.
113 Fino al 52 per cento se venivano prestate delle garanzie, altrimenti fino al 120 per cento (Homer, 1987, p. 91).
114 La prigione per debitori, nel senso di una prigione esclusivamente per i debitori, esistette in Inghilterra solo a partire dal 1263, ma l’imprigionamento dei debitori ha una storia molto più lunga. Soprattutto, sembra che gli usurai ebrei siano stati usati per trasformare moneta creditizia in monete coniate, pignorando l’argenteria di famiglia dei debitori insolventi e portandola alla zecca reale. Acquisirono rapidamente anche molte terre, sempre da debitori insolventi, che finirono in larga parte sotto il controllo di baroni o monasteri (Singer, 1964; Bowers, 1983; Schofield e Mayhew, 2002).
115 Roger di Wendover, Flowers of History, pp. 252-53. Egli non specifica il nome della vittima; in alcune versioni successive è chiamato Abramo, in altre Isacco.
116 Matthew Prior, in Bolles, 1837, p. 13.
117 Oppure anche le fantasie di Nietzsche secondo cui le origini della giustizia sarebbero da cercare nelle mutilazioni. Mentre quella era una proiezione sugli ebrei di atrocità in realtà commesse contro gli ebrei, Nietzsche scriveva in un’epoca dove i «selvaggi» venivano spesso puniti con torture e mutilazioni simili per non aver pagato i loro debiti all’autorità coloniale. In seguito divenne noto il famoso scandalo del Congo Belga governato da Leopoldo.
118 Mundill, 2002; Brand, 2003.
119 Cohn, 1972, p. 80.
120 Peter Cantor, in Nelson, 1949, pp. 10-11.
121 Per esempio, quando gli ebrei furono infine espulsi dall’Inghilterra nel 1290, la loro proprietà passò a un’azienda di Cahors. Per un lungo tempo, la situazione degli stessi lombardi e caorsini dipese dal favore reale, non erano in una posizione molto migliore di quella degli ebrei. In Francia, pare che i re espropriassero ed espellessero alternativamente lombardi ed ebrei (Poliakov, 1977, p. 42).
122 Noonan, 1957, pp. 18-19; Le Goff, 1990, pp. 23-27 (trad. it. 1987).
123 Come ho detto, ci sono due modi per arricchirsi; uno è parte della gestione domestica, l’altro è il commercio: il primo metodo è necessario e onorevole, mentre il secondo, che consiste in un mero scambio, è giustamente censurato; perché è innaturale, una pratica con cui l’uomo trae profitto dagli altri uomini. Tra queste, la pratica più odiata, e a ragione, è l’usura, che genera profitti dal denaro stesso, e non dalla sua forma naturale. Perché il denaro serve per gli scambi, non per crescere con l’interesse. E il termine interesse (tokos), che significa che il denaro nasce dal denaro stesso, si applica alla moneta perché i figli assomigliano ai genitori. «Quindi tra tutte le modalità di arricchimento l’usura è la più innaturale» (Aristotele, Politica, 1258b). L’Etica Nicomachea (1121b) contiene una condanna altrettanto netta. Per la migliore analisi generale della tradizione aristotelica sull’usura vedi Langholm (1984).