Documento preparatorio della Tesi sull’Italia

 

27 settembre 2019

di Mimmo Porcaro

TESI 1: LA QUESTIONE  ITALIANA

A)

La situazione del nostro paese è grave. L’Italia si prepara ad affrontare una realtà fatta di recessione e di crescenti conflitti fra blocchi economico-politici, senza aver superato lo shock della crisi del 2007, con una struttura economica decisamente indebolita, un apparato pubblico sottodimensionato, cittadini divisi da crescenti fratture sociali e territoriali, una classe dirigente sempre inadeguata e spesso impresentabile, una politica estera inesistente e quindi totalmente subalterna. I dati parlano chiaro, e confermano la quotidiana esperienza di chiunque sappia guardarsi intorno. Tutto ribadisce l’aumento pericoloso delle divaricazioni e degli squilibri tra l’Italia e il nucleo centrale dell’Europa, tra Nord e Sud del paese, tra classi e frazioni di classe.

Crescita inesistente, caduta degli investimenti sia privati che pubblici, calo della produttività del lavoro, pesante numero di disoccupati (conteggiando come è doveroso anche gli scoraggiati e pur facendo astrazione dai sottoccupati), aumento delle persone considerate in povertà relativa e assoluta (raddoppiate, queste ultime, dopo l’ineffabile governo Monti).

E ciò in un paese che ha già fatto tutte le riforme richieste dai dogmi liberisti e divenute, con l’Unione europea, un vincolo politico, giuridico e addirittura morale: “serietà” fiscale non certo inferiore a quella di altri membri dell’Unione (decenni di avanzo primario che ben concorrono a spiegare l’attuale depressione), severa diminuzione degli indici di protezione del lavoro, liquidazione dell’impresa pubblica, e così via.

B)

Questa situazione viene da lontano. Non è solo il frutto della cosiddetta globalizzazione, dell’Unione europea, delle dinamiche generali del capitalismo. Ha tratti specificamente nostrani. E’ figlia della risposta che le classi dominanti italiane hanno dato ai problemi posti, intorno agli anni ’70 del secolo scorso, dalla lotta di classe interna e dal conflitto internazionale.

L’Italia affronta quegli anni di transizione partendo da una struttura economica di grande estensione e potenzialità, ma tarata da rapporti sociali regressivi: grandi gruppi pubblici in mano privata (manager e partiti)  e grandi gruppi privati stretti da patti politici, attorniati da una pletora di medie e soprattutto piccole imprese, frutto queste ultime sia di positive caratteristiche storiche della nostra economia, sia della deliberata scelta democristiana di favorire oltre ogni logica la piccola proprietà in espressa funzione antioperaia. A tale struttura si affianca uno stato sociale nato tardivamente, gestito in maniera particolaristica e clientelare, e soprattutto finanziato non attraverso il contributo fiscale ma attraverso l’aumento puro e semplice della spesa.

Strette fra l’aumento delle pressioni popolari e i processi di internazionalizzazione che richiedono sempre maggior rigore, le classi dominanti italiane scelgono di agire in due modi. Prima di tutto indebolendo i lavoratori attraverso il decentramento produttivo, la diversificazione contrattuale e la precarizzazione del lavoro.

In secondo luogo usando l’internazionalizzazione (ed in particolare la collocazione del debito presso il mercato finanziario mondiale) proprio per giustificare il disciplinamento del lavoro e la riduzione delle spese sociali e dell’intervento pubblico. Tutte queste scelte sono state successivamente santificate e rese automatiche dall’introduzione dell’euro e dal complesso delle regole dell’Unione europea, in modo che ormai non è possibile invertirle o contrastarle realmente senza mettere in discussione la moneta unica e l’Unione stessa. Ma nascono dall’interno del paese come espressione di particolari interessi di classe.

E infatti vengono gestite in una maniera particolare che ne rende più crudi, se possibile, gli effetti. Decentramento produttivo e precarizzazione del lavoro vengono spinti all’eccesso e ottengono così il contrario della modernizzazione voluta, perché aumentano il numero delle piccole imprese (e in particolare di quelle che sono mero travestimento del lavoro dipendente) e della connessa area di informalità ed evasione fiscale. L’abbattimento dell’intervento pubblico nell’economia, realizzato oltretutto il forme del tutto liquidatorie che avrebbero potuto essere evitate, pur non comportando affatto un completo ritiro dello stato, che rimane supporto decisivo per molti gruppi privati o comunque privatistici,  ne ha completamente affossato il ruolo principale di intervento sistemico e di indirizzo, riducendone anche il peso dimensionale all’interno della competizione internazionale e ponendo così il paese in grave condizione di inferiorità rispetto a chi (Usa, Francia, Germania) pur continuando a parlare di liberismo ha saggiamente continuato ad agire da statalista. E favorendo anche, in tal modo, l’internazionalizzazione subalterna della stessa grande impresa privata, sempre più dipendente dai flussi del capitale mondiale.

C)

La grave condizione del paese è così, alla fine, soprattutto il risultato della reazione capitalista alle lotte popolari degli anni ’70. La caduta della produttività del sistema è dovuta principalmente all’eccessiva diminuzione del salario diretto e indiretto ed alla acuta precarizzazione del lavoro che, per vie diverse, disincentivano sia l’innovazione da parte dell’imprenditore sia la partecipazione continuativa, e quindi convinta, del lavoratore al processo produttivo.

La difficoltà ad operare ristrutturazioni che pongano il paese sulla strada della competizione di qualità e non solo di prezzo (non infondato refrain delle letture critiche del capitalismo italiano), è in gran parte frutto dell’abbattimento quantitativo e della distorsione qualitativa (regionalistica, frammentata, non verificabile) dell’intervento pubblico, voluti sia da buona parte degli imprenditori che dal ceto politico. L’attacco al lavoro e allo stato, attacco più duro di quanto sia avvenuto altrove e dovuto alla storica incapacità della borghesia italiana di dar corso a compromessi sociali progressivi, si sta scaricando ulteriormente su tutto il paese.

La strategia del vincolo esterno, scelta per soddisfare il vincolo interno costituito dalla predilezione della borghesia italiana per i bassi salari e per l’esportazione di capitali, ha palesemente fallito dal punto di vista della modernizzazione del sistema. Illudendosi che il rigore produca automaticamente la virtù, ha semplicemente tagliato le risorse, poco o nulla facendo per sviluppare tendenze endogene alla razionalizzazione produttiva. In assenza di risorse sono stati così incentivati soprattutto i comportamenti opportunistici sia delle grandi e medie imprese, sia delle vecchie e nuove zone di rendita ed evasione fiscale.

Ha quindi esacerbato la questione del debito pubblico aggiungendo a quanto derivato dal vecchio modello (clientelismo ed evasione) il pesantissimo onere degli interessi dovuti al mercato finanziario, ed aggravando il tutto con la generale depressione dell’attività economica, e soprattutto generando una redistribuzione al contrario, in cui chi è debitore dello stato, perché evade o elude (grazie a una legislazione favorevole ai  redditi da capitale) le imposte, ne diviene poi creditore attraverso il possesso di titoli del debito: e gli interessi gli vengono pagati con la tassazione del lavoro.

Ha però avuto grande successo, quella strategia, nel rendere automatici e incontestabili i meccanismi della disoccupazione e della deflazione salariale e nel subordinare progressivamente l’intero paese alla centralizzazione dei capitali verso i paesi forti dell’Europa. Processo che ha finito col danneggiare anche la parte più debole dell’imprenditoria italiana ma che dalle pur spesso confuse esigenze di quella stessa imprenditoria è stato comunque inaugurato: cosa da non scordare mai quando si parla delle inevitabili alleanze di un fronte dell’Italexit.

D)

Certo, non siamo ancora alla tragedia vera e propria. Nell’analisi del capitalismo in generale, e di quello italiano in particolare, bisogna rifuggire sempre da quello stagnazionismo che, per fare un solo esempio, lasciò disarmato di fronte all’impetuoso sviluppo degli anni ’60 un Pci che era attrezzato solo per una battaglia contro la povertà e contro l’arretratezza.

Oggi non è affatto alle viste uno scatto come quello del boom, e siamo anzi certamente in una fase del tutto opposta, ma è realistico leggere la crisi non come impoverimento di tutta la società, ma come impoverimento di alcuni e arricchimento di altri. Ossia come riorganizzazione produttiva (che in Italia vede ad esempio l’aumento del numero delle imprese a dimensione multinazionale o transnazionale, nonché l’evoluzione di molte piccole imprese che rappresentano comunque un fattore importante di dinamismo o di resistenza), che può attenuare tempi e modi della crisi stessa e, soprattutto, tutelare le condizioni di  una parte di quello strato intermedio (che va dalle frazioni superiori del lavoro a contratto stabile alle libere professioni, e da queste alle piccole imprese dei servizi avanzati) che assicura consenso all’attuale gestione del paese ad alla sua integrazione nell’Unione.

Ma tutto questo non basta al resto dell’Italia. Né può durare troppo a lungo per gli stessi strati relativamente privilegiati. Perché la crescita non può che ristagnare. Perché si preparano, nel mondo, tempi peggiori. E perché, di fronte a tutto ciò, al momento, non sembra di poter trovare né all’interno dei ceti popolari, né nell’apparato di stato, né, soprattutto, nella cosiddetta classe dirigente, le idee e le forze per imboccare una nuova direzione.

E)

Quando le anime belle dell’establishment liberista si stracciano le vesti per l’apparire del populismo non fanno che parlar male del loro figliolo e lamentarsi del proprio successo. Per decenni hanno lavorato per sfasciare le stabili concentrazioni operaie, per dichiarare morte le ideologie che davano senso all’azione collettiva, per sbaraccare i partiti di massa e ridurre l’attività politica ad affarismo, per propagandare le virtù dell’individualismo e della competizione.

Per decenni hanno sostenuto un ordine sociale che genera negli individui un’alternanza fra delirio di onnipotenza e rabbia, perché da un lato offre la possibilità di desiderare tutto e dall’altro oppone la dura realtà di un reddito aleatorio, perché un giorno invita tutti a darsi un progetto di vita e l’altro fa apparire i fallimenti sistemici come fallimenti del progetto individuale. Per decenni hanno impoverito quote crescenti di cittadini a cui hanno poi lasciato solo il rifugio nelle incerte sicurezze del territorio e delle istituzioni più tradizionali, o nelle banali trasgressioni dei media divenute da tempo un codice di comportamento come gli altri.

Hanno fatto tutto questo e poi fanno mostra di stupirsi se i cittadini oscillano tra indifferenza politica ed esplosioni apparentemente disordinate di dissenso, e tendono ad aderire a messaggi spesso semplicistici e contraddittori.  In realtà hanno ottenuto quello che volevano, e adesso ne pagano (quando le pagano) le conseguenze. Hanno tolto visibilità, ordine e razionalità al conflitto di classe, ed esso si è ripresentato inevitabilmente in maniera scomposta e priva di coerenza programmatica e strategica. Il “popolo” che ha sostituito la classe operaia come soggetto politico è un insieme di individui che si sente sempre più minacciato dall’esterno, che si sente parte della società non perché lavora, ma perché consuma (e ciononostante ha bisogno del lavoro come dell’aria), che stenta a costruire corpi intermedi e solidarietà orizzontali, che è stato deprivato di ogni memoria di un mondo diverso da quello attuale, dove le cose potevano essere chiamate col loro nome: classe, capitalismo, socialismo.

E che, inoltre, è internamente scisso da una drastica separazione tra lavoratori qualificati e dequalificati che ha progressivamente smembrato una comunità di lavoro, proiettando spesso i primi verso il blocco liberista e diminuendo le risorse culturali e politiche dei secondi. Questo insieme di individui solo occasionalmente aggregati non può esprimersi pubblicamente che attraverso una rassegnata o rancorosa astensione oppure attraverso l’identificazione con un progetto, appunto, populista, che limita il campo della protesta alla casta, alla disonestà, ai privilegi (magari anche a quelli della parte meno sfortunata del “popolo”).

Questa protesta è comunque assai importante, perché, non attraversando la fase della contrattazione sindacale o corporativa, ha una forma immediatamente politica ed è quindi in grado, nei momenti di crisi, di acuire le difficoltà del blocco dominante. D’altra parte, però, non avendo proprie autonome associazioni di tutela ed autoriconoscimento, il “popolo” è costretto ad affidarsi integralmente al partito scelto alle elezioni, e non è in grado di indicare implicitamente o meno ad esso direzioni di apprendimento e mutamento. E poiché il “partito” è frutto della stessa temperie che ha generato il “popolo” è fatale che, non intervenendo salti genetici o fattori esogeni, l’uno inclini al trasformismo (privo com’è di autonomia ideologica, e partecipe ormai delle rendite politiche senza aver elaborato robusti legami con la propria classe) e l’altro ad una maggiore rassegnazione, premessa di esplosioni ancora più rabbiose.

F)

Lo stato italiano esce significativamente modificato dagli ultimi decenni. Prima di tutto per la continua carenza di risorse imposta da un’applicazione assai rigida dei canoni europei, che sfocia nei già ricordati avanzi primari. Secondariamente, ma questo è l’effetto più pesante, per la frammentazione e l’incoerenza dell’azione pubblica.

Se l’attività di comando politico è stata parzialmente unificata da una linea che va dalle istituzioni europee al governo nazionale, il quale grazie all’investitura comunitaria ha potuto accrescere il potere già ottenuto in decenni di lievitazione della decretazione d’urgenza e della dotazione strumentale della Presidenza del Consiglio, l’attività amministrativa ordinaria si presenta invece come un insieme spesso caotico di processi decisionali incomunicanti. Anche al tempo dell’oggi deprecato dirigismo statale, o partitico, la regolazione pubblica non era affatto monolitica e coerente.

E questo sia perché la stessa rigidità delle norme ne rendeva spesso necessario l’aggiramento a vantaggio aggiustamenti spontanei di carattere privatistico o latamente comunitario, sia perché i partiti, capaci di trasmettere le domande sociali all’apparato pubblico, raramente si mostravano altrettanto capaci di selezionare e combinare tali domande in programmi coerenti.

Cosicché alla fine in Italia si affermò di fatto in numerosi comparti un sistema di regolazione basato sulla pressione pluralistica e sulla disordinata risposta dello stato, cosa che risultò evidente soprattutto nella gestione della politica industriale degli anni ‘70, dove i timidi tentativi di accentramento decisionale furono sopraffatti dalla pluralità dei centri di potere e dalla prevalenza degli interessi settoriali. Queste dinamiche di dispersione del potere non poterono che accentuarsi con la fine della prima repubblica e con le trasformazioni indotte dal regionalismo e dalla sempre più stringente costruzione europea.

Il primo ha moltiplicato ulteriormente i centri di decisione e di spesa rendendo sempre più opaca la responsabilità degli atti amministrativi e sottraendo di fatto molti di essi al controllo dei cittadini, perché mentre numerose decisioni vengono prese a livello regionale i riflettori della scena mediatico-politica continuano ad essere puntati essenzialmente su Roma.

La seconda ha contributo per parte sua alla moltiplicazione ed opacizzazione delle responsabilità, ma soprattutto ha ridotto il raggio di intervento del potere centrale di stato sia in linea di principio sia in linea di fatto, tagliando drasticamente le risorse degli apparati e quindi impoverendone la capacità di intervento dal punto di vista quantitativo e qualitativo. Inoltre, nel campo in cui l’Unione ha più direttamente influenzato l’azione amministrativa, e cioè quello della gestione dei fondi strutturali, pur introducendo significativi elementi di innovazione in materia di presentazione dei progetti e di rendicontazione, essa ha confermato e in qualche modo sistematizzato la commistione tra pubblico e privato tipica del nostro stato, svolgendosi come contrattazione tra politici, amministratori e rappresentanti di interessi privati, e per di più sulla base di linguaggi castali e procedure complicatissime, lontani dalla comprensione non solo dei singoli cittadini (che sono per principio esclusi da queste forme di “partecipazione” ) ma di molti degli stessi addetti ai lavori.

In questa rete decisionale è stata impigliata e si è arresa gran parte di quel mondo associativo che si era presentato come una terza via tra la regolazione di stato e quella di mercato, e che è divenuto invece ancillare alla privatizzazione: cosa che ci dice che un futuro modello di azione pubblica, inevitabilmente basato anche sul coinvolgimento dell’associazionismo, dovrà prevedere non soltanto un’ apertura dello stato, ma anche una maggiore affidabilità e indipendenza delle associazioni stesse, che devono liberarsi dalla gestione diretta di funzioni pubbliche recuperando il ruolo di tutela culturale e politica di interessi definiti. Il risultato di tutte queste trasformazioni è un apparato di stato indebolito e poco efficace, i cui organi poco possono contro le differenziazioni sociali del paese e che addirittura ricalcano, invece di contrastarli, i divari territoriali: un apparato che non riesce a svolgere una funzione direttiva in nessuna delle aree decisive della società e dell’economia.

Come è esemplificato dalla “politica industriale”, che si svolge ormai solo attraverso sgravi ed incentivi alle imprese, senza nessun vero indirizzo e soprattutto con poche o nulle possibilità di controllo sull’uso delle risorse, data la pluralità dei criteri e dei centri adibiti al controllo stesso e, addirittura, il non infrequente ricorso all’autovalutazione. L’apparato pubblico italiano non è quindi una macchina momentaneamente ferma che attenda solo qualche riparazione e qualcuno che la sappia guidare nella giusta direzione: è un meccanismo che deve essere integralmente ricostruito.

Per fortuna vi sono, all’interno dell’apparato, molte risorse che potrebbero contribuire in maniera decisiva ad una ripresa. Professionalità, senso della missione e della dignità nazionale si registrano in maniera evidente in coloro che svolgono attività di contrasto a un crimine organizzato che gozzoviglia nell’atmosfera neoliberista, in coloro che operano nell’immediatezza delle emergenze ambientali, in chi è impegnato nella più difficile assistenza sociale.

E più in generale si deve considerare che, se la carenza di risorse non ha fatto collassare del tutto l’apparato, ciò si deve non tanto alle spesso grottesche iniezioni di managerialità, ma all’abnegazione ed all’inventiva (non riconosciute e non remunerate) di una gran parte dei lavoratori pubblici. Tutte queste risorse attendono (e meriterebbero) un ceto politico capace di riorganizzarle, rafforzarle e utilizzarle al meglio. Attendono, cioè, proprio quello che manca.

G)

Il progressivo ritiro della politica e dello stato dalla loro funzione direttiva (funzione che garantisce il  carattere democratico di una repubblica), la delega crescente di compiti ad organismi privati e infine la voluta subordinazione all’Unione europea hanno prodotto negli anni un ceto politico opportunista, incolto e vile, incapace non solo di immaginare un futuro diverso per il paese, ma anche di gestire in autonomia situazioni differenti da quelle dell’ordinaria rappresentanza degli interessi.

La dissoluzione dei partiti di massa e la feroce critica a tutto ciò che suona come “ideologico” (eccezion fatta per l’ideologia del mercato) ha promosso l’idea non già di una politica come professione ma – complice anche la disoccupazione – di una politica come posto di lavoro, come occupazione tra le altre, priva di qualunque connotazione valoriale e tesa solo a sbarcare il lunario. Il sistema elettorale maggioritario ha legato sempre di più il singolo parlamentare alla rappresentanza di interessi lobbistici e comunque settoriali, rendendo inutile e fastidiosa ogni riflessione sulle prospettive nazionali.

Il regionalismo, vero cancro della politica italiana, ha completato e perfezionato l’opera, consentendo un’ancor maggiore commistione fra rappresentanza politica ed interessi e moltiplicando i canali che necessitano del mediatore politico. A livello più “alto”, l’attività del politico italiano consiste nella gestione di un conflitto dai caratteri generalmente già codificati dal bipolarismo (il che non favorisce la crescita dell’intelligenza strategica) e svolto attraverso il linguaggio miserabile dei media. Dopo di che, consiste essenzialmente nell’accettare e nel far accettare le regole dell’Unione europea (e spesso nel richiedere riservatamente all’Unione questa o quella “imposizione” per poi presentarla come ineludibile).

Infine, su tutte le questioni essenziali, nessun politico, a qualunque livello, si sente ormai in dovere di darsi una minima formazione culturale perché su tutto ciò che conta si lascia la parola ai “tecnici”: al massimo serve un prontuario di frasi o battute per la tv e i social. E, per tornare all’origine dei problemi, con la fine del partito di massa è finita ogni occasione di vicinanza antropologica tra il rappresentante politico e la sua più diffusa base popolare: così le concrete difficoltà della vita di milioni di persone sembrano svanire lontano e il misero interesse personale e la microscopica ambizione sono l’unico criterio guida.

Nulla di serio è possibile fare con questo ceto politico. Né l’imprenditoria, quando “scende” in politica, sembra brillare di miglior luce. La questione italiana è soprattutto questione di classe dirigente. 

H)

E’ inutile, quindi, scrivere programmi e prescrivere ricette se prima non si affronta il problema principale. L’energia sociale per uscire dalla situazione attuale si può trovare soltanto in chi non può più sopportare la situazione attuale. Ceto politico e imprenditori trovano tutti, più o meno, la loro remunerazione nella gestione dell’esistente: hanno un interesse di classe e di ceto alla conservazione.

E’ quindi necessario che dal popolo, ossia dalla parte finora più colpita e più esclusa dalle decisioni dell’ordine liberista, sorga una nuova classe dirigente capace di mediare, come accadde nei vecchi partiti di massa, le differenze tra le diverse figure delle classi subalterne. E’ necessario che si formino nuove associazioni di base, e soprattutto nuovi partiti, che consentano questo passaggio.

Ed è necessario che la nuova classe dirigente si misuri col problema dell’unificazione non solo delle classi subalterne, ma di tutto l’ampio fronte che può muoversi in direzione antiliberista ed antiunionista. Su questa base è possibile pensare ad un programma per il paese. Ma anche il programma non può essere questione di tecnica economica o politologica. Come la crisi del paese è effetto di determinati rapporti sociali, così il programma per sortirne è prima di tutto questione di rapporti sociali. Anche se è vero che oggi il popolo non può essere mobilitato immediatamente come classe, e che quindi la classe non è il punto di partenza dell’azione politica, è però altrettanto vero che il punto di arrivo di tale azione non può non essere una trasformazione dei rapporti di sociali.

E’ inutile o e addirittura dannoso parlare a vanvera di beni comuni, di riconversione ecologica, di investimenti in ricerca e sviluppo, ecc. se non si indicano con precisione quali sono le classi che da tutto ciò guadagnano potere e quali le classi che ne perdono. In mancanza di ciò ogni grande o piccola innovazione finisce solo per rafforzare il potere di chi ce l’ha già, aumentando le risorse a sua disposizione.

Bisogna quindi dire con chiarezza che il programma consiste prima di tutto nel porre la sfera pubblica in posizione di preminenza rispetto a quella privata e nel rafforzare il lavoro rispetto al capitale, riconoscendo al primo il ruolo centrale che già svolge, e che meglio ancora potrà svolgere quando sarà liberato dai ricatti che lo umiliano. La sfera pubblica deve essere preminente perché garantisce, attraverso l’ormai ineludibile assunzione di nuovo personale, un’immediata ed importante risposta alla disoccupazione ed al calo della domanda.

E perché consente, attraverso un pool di imprese di stato sottoposte a controllo parlamentare e sociale, di investire direttamente nei settori che, individuati come strategici, siano scarsamente frequentati dai privati: in particolare nella produzione diretta di beni di alto contenuto tecnologico e nella diffusione delle relative conoscenze all’intero sistema industriale, produzione e diffusione che diminuirebbero la dipendenza tecnologica del paese dall’estero, e in particolare dalla Germania. Così come diminuirebbe la dipendenza energetica del paese in seguito ad un vasto programma pubblico di riconversione ecologica e di tutela ambientale.

Il lavoro deve tornare ad essere centrale, prima di tutto perché centrali devono tornare ad essere i cittadini, e poi perché l’unica vera fonte di innovazione e di crescita della produttività è appunto il lavoro stesso, quando ne sia riconosciuta e remunerata la creatività. Non si tratta solo di assunzioni, di “posti di lavoro”, di aumento del reddito. Si tratta di riconoscimento sociale, di inserimento in un processo collettivo, unico vero antidoto alla disgregazione ed al triste narcisismo attuale.

La nuova espansione del lavoro pubblico dovrà essere accompagnata non solo da una cultura dell’organizzazione che punti soprattutto sulla cooperazione di squadra (piuttosto che sulla sciocca e controproducente meritocrazia brunettiana), ma anche da una chiara valorizzazione del lavoro pubblico in sé, da un invito ai neoassunti a partecipare alla ricostruzione del paese, mentre mettono mano alla costruzione della propria vita.

Nel contempo, l’aumento generale dell’occupazione reso possibile dal nuovo intervento pubblico, dovrà condurre ad un lavoro privato sempre meno soggetto al ricatto occupazionale e quindi sempre più motivato a quella partecipazione attiva al processo di lavoro che, nelle attuali condizioni di variabilità del mercato, imprevedibilità dei problemi e mutamento delle procedure, è condizione essenziale della produttività. Una partecipazione che dovrà essere adeguatamente remunerata e sarà base dell’accresciuta forza contrattuale dei lavoratori, foriera di ulteriori avanzamenti.  Questo è il centro del programma: lavoro e stato. Il resto segue.

I)

Rafforzare il lavoro e lo stato, creare la coalizione sociale che possa proporsi questo fine, accumulare la forza che possa reggere lo scontro con l’Unione europea e con i suoi agenti interni, richiede una capacità di mobilitazione popolare che vada ben al di là di una piattaforma social, di un “colpo” elettorale, di una qualche celebrazione identitaria. Difficile tradurre, come si faceva un tempo, una vertenza sindacale in vertenza politica generale.

Difficile trasformare i meet up, o esperienze del genere, in stabile forma di aggregazione. Tra l’antica aggregazione di classe e quella mediatica sarà forse necessario e possibile provare momenti di mobilitazione territoriale, prendendo le mosse da ogni luogo che sia o si viva come periferico rispetto ad un centro, e tentando di indicare un centro comune verso il quale addensare la protesta. Vertenze provinciali, di hinterland, di immediata cintura urbana.

O più ampie coalizioni sociali che abbiano ad oggetto la sorte di territori più vasti, fino a pensare ad una coalizione per il sud (o per i sud) d’Italia, che ponendo i problemi dei ceti e dei luoghi impoveriti indichino a tutto il paese la generale urgenza di una svolta nel nome dell’unità: l’unità civica nell’effettiva eguaglianza fra cittadini, l’unità delle classi subalterne, l’unità del territorio della Repubblica, condizione essenziale del suo peso internazionale e quindi della sua capacità di azione politica interna.

TESI 2: LA POLITICA ESTERA

A)

In nessun campo è più evidente il fallimento delle attuali classi dirigenti italiane come in quello della politica estera. Come si è visto, l’operazione di chiusura della fase di lotta di classe iniziata negli anni ’70 si svolge anche come approfondimento della dipendenza del paese dalle altre potenze e dai mercati internazionali. Dall’adesione dell’Italia allo Sme nel 1978 alla sigla dei patti di concertazione degli anni 1992-1993, il mutamento delle politiche monetarie e fiscali, necessario per regolamentare in senso regressivo il conflitto sociale, viene presentato come frutto di un’ineludibile pressione internazionale. La vittoria definitiva sulle lotte del lavoro coincide con la denazionalizzazione della politica italiana e si attua attraverso di essa.

Ma come si è visto, dietro l’idea del vincolo esterno c’è qualcosa di ben diverso dall’assoluta necessità di tener conto del contesto internazionale e dei rapporti di forza, (cosa che peraltro può essere fatta in molteplici forme, e non costringe affatto a partecipare ad una unione monetaria…): c’è piuttosto il peso delle esigenze delle classi dominanti e dei loro rappresentanti politici, che impongono tempi e modi dell’internazionalizzazione.

Sullo Sme erano possibili scelte diverse. Erano possibili anche su Maastricht e sull’euro, pur rimanendo in una prospettiva europeista. Ma la politica italiana aveva già ceduto sul punto più importante: lasciando morire Aldo Moro e scegliendo poi l’obbedienza passiva al diktat statunitense contro la partecipazione del Pci all’area di governo.

Al di là di qualunque nostra valutazione sulla possibile politica governativa di un Pci già aduso all’austerità, la Dc e i suoi satelliti avrebbero potuto, pur nel quadro atlantico, rivendicare con coraggio la necessità di assicurare stabilità al paese, magari graduando ulteriormente la svolta. In realtà più che di obbedienza passiva si trattò di un uso opportunistico delle decisioni di Washington ai fini della sopravvivenza di un ceto politico nazionale. Inizia, o si accelera, da quel momento il declino di un ceto politico che aveva in passato dato segno di una qualche pur residuale autonomia di giudizio e di intervento.

Inizia, o si approfondisce, la manifesta incapacità di definire un interesse nazionale, non per contrapporlo avventuristicamente a quello altrui, ma per mediarlo consapevolmente coi rapporti di forza internazionali, evitando così, tra l’altro, anche una sua definizione reattiva in termini sciovinisti. E tutto ciò diviene manifesto dopo il 1989. La fine della guerra fredda riapre i giochi e rende possibili nuove posizioni o ridefinizioni di quelle precedenti. Ma in tutto questo l’Italia è muta: persa la rendita di posizione derivante dal fatto di essere parte importante della cortina di ferro, non riesce a trovare un’autonoma strategia che ne faccia pesare in qualche modo il ruolo.

Sublima questa impotenza nell’affidarsi integralmente alle istituzioni della globalizzazione, Unione europea inclusa: resterà quindi del tutto disarmata di fronte alle impasse di quelle istituzioni e all’emergere di una realtà fatta comunque e sempre di stati nazionali. Rifiutandosi di definire il proprio interesse nazionale, finirà per fare la guerra nell’interesse altrui e contro le sue storiche esigenze di stabilizzazione: Jugoslavia, Iraq, Libia.

B)

La scelta della passività operata dal ceto politico della prima repubblica, tradottasi in decenni di obbedienza a chiunque facesse la voce più grossa, non poteva che generare ulteriore servilismo nei successori. Un ceto politico ormai diviso tra un sottobosco regionalistico legato ai piccoli affari e un vertice che risponde direttamente ad agenzie sovranazionali, con un sottile strato intermedio di figure deputate a litigare in televisione fingendo di parlare delle questioni vitali del paese, è strutturalmente incapace di definire, prima ancora che di perseguire, un interesse nazionale.

Anche in questo caso il compito spetta ad una nuova classe dirigente di origine popolare, che si liberi una volta per tutte dall’idea che l’interesse nazionale sia un qualcosa “di destra”: esso è in larga parte un fatto, derivante dalla collocazione geografica e dalla storia di un paese, ma per il resto è anch’esso un costrutto politico, aperto a diverse interpretazioni. In questa fase storica l’interesse nazionale coincide in buona misura con quello delle classi subalterne.

C)

Proviamo a definirne i tratti generali. L’Italia ha prima di tutto interesse al sorgere di un mondo multipolare e alla costruzione di un nuovo equilibrio internazionale.

Questo perché le sue possibilità di sviluppo non possono stare solo in un Occidente che è sempre sull’orlo di una crisi esplosiva, ed è quindi necessario differenziare ulteriormente mercati di sbocco e fonti di approvvigionamento: Mediterraneo, Russia, Cina, nonché la finora colpevolmente sottostimata area latinoamericana. Poi ha interesse al controllo politico del mercato nell’area economica in cui è oggi di gran lunga più integrata: quella europea. Ciò vuol dire che sarebbe contro l’interesse nazionale (e comunque impossibile) interrompere o diminuire significativamente i flussi degli scambi con il vecchio continente, ma che lo sarebbe altrettanto continuare a farlo con le modalità imposte dall’Unione europea e dall’euro.

Poi ha interesse ad una stabilizzazione dell’area mediterranea e mediorientale, come spazio possibile di un’autonoma strategia economico-politica. Inoltre, sul versante interno, la necessità di produrre una politica estera degna di questo nome e di farlo in una fase di grande instabilità, conferma la necessità di invertire la logica delle privatizzazioni e delle dismissioni, di dar vita ad un forte apparato pubblico capace di innovazione tecnologica – con le inevitabili e positive ricadute anche sul piano militare – e capace di assumere dimensioni aziendali che consentano un ruolo geopolitico.

Così come si traduce nella necessità di sviluppare il mercato interno per ridurre la dipendenza dalle esportazioni, esposte ai venti della crisi internazionale. Come si vede c’è qui connessione stretta fra interesse nazionale e interesse di classe.  Rilancio del settore pubblico, crescita dell’occupazione e della domanda interna dovranno sicuramente avvenire in tempi e modi non predeterminabili dalla sola nostra volontà, e in buona misura definiti, anche in regime di sovranità monetaria, dal quadro internazionale, ma sono comunque coerenti con le esigenze di una politica estera efficace: ne sono in qualche misura i presupposti.

La coincidenza tra interesse nazionale e interesse popolare è la chiave di volta per affrontare col necessario consenso sociale una politica estera tanto ineludibile quanto impegnativa.

D)

Come perseguire l’interesse nazionale, così definito? Sappiamo che senza la creazione di uno spazio adeguato, in cui sia possibile guadagnare e gestire la sovranità monetaria e in cui i movimenti del capitale possano essere controllati, non è possibile nessun progresso né per il paese, né per le sue classi subalterne.

Sappiamo che per creare tale spazio è necessario modificare la collocazione internazionale del paese, e che questo è reso oggi possibile dall’emergere di un mondo multipolare e dalla fluidità della situazione storica.

Sappiamo che, nonostante la sua crisi, il paese ha ancora un peso economico ed una collocazione geografica che possono farne un attore non irrilevante. Ma sappiamo anche che l’Italia in questi ultimi decenni ha perduto parte della sua capacità di manovra in politica estera e che in questa condizione può essere vittima di alcune costanti storiche capaci di condizionarne il movimento: l’assenza di alleati stabili in Europa (necessari, conviene ricordarlo, anche per una positiva gestione dell’exit), il ricorso sistematico agli Usa all’apparire di ogni serio contrasto con gli stati europei, il carattere a volte ipotetico delle relazioni mediterranee, i limiti finora mai superati nei rapporti con Russia e Cina e derivanti non solo dalle ingerenze occidentali, ma anche dalle strategie di questi paesi, decisamente interessati al rapporto con Roma, ma non necessariamente tenuti ad appoggiare le sue eventuali azioni di rottura nei tempi e nei modi da essa scelti.

Fra tutti, il rischio più evidente è quello di cadere ancor di più nelle mani di Washington mentre si cerca di liberarsi di Bruxelles: operazione che viene suggerita da una parte delle élite italiane (Limes), ma che è illusoriamente presentata come una scelta possibile senza perdite, che potrebbe lasciare intatte le nostre relazioni con Russia e Cina, nonché le nostre aspettative di stabilizzazione mediterranea. Si tratta di un rischio che corre chiunque, anche chi magari scegliesse di muoversi contemporaneamente contro Bruxelles e contro Washington, dovendo poi frettolosamente correre ai ripari. Questo nodo può essere sciolto o accettandolo consapevolmente in maniera tattica e soppesandone con attenzione pro e contro, o stringendo ulteriormente relazioni alternative: le due cose si condizionano a vicenda, perché sia gli Usa sia gli altri interlocutori potrebbero essere spinti a patti non leonini con L’Italia proprio dalla presenza di altre forze in campo. Si ripresenterebbe dunque la classica situazione di utilizzo dei contrasti altrui, che è il terreno più favorevole all’azione di un paese come il nostro (a patto di aver chiari gli obiettivi), e in tali situazioni tanto maggiore è la capacità di manovra quanto maggiore è il numero degli attori.

Si dovrebbe quindi esplorare, per quanto possa apparire remota, la possibilità di aggiungere a Usa, Russia, Cina e all’intero spazio mediterraneo anche alcuni paesi europei: per esempio accompagnando da subito una strategia di exit con la profferta di un’alleanza politico-militare tesa a rafforzare l’autonomia dell’area europea dagli Usa e a convergere con le tendenze autonomiste di Francia e Germania. Ma soprattutto si dovrà lavorare alla solidità interna del paese. Infatti, una volta definiti i nostri interessi fondamentali ed alcune direzioni generali, molto è inevitabilmente – per esprimersi con Machiavelli – nelle mani della fortuna. Ma non poco dipende dalla nostra virtù, e sta a noi agire su almeno tre piani. Una nuova forza politica di ispirazione socialista deve pensare la politica estera come parte integrante di quella interna. Sarà anche stata pittoresca, a lungo andare, l’abitudine dei vecchi militanti comunisti di arrivare a parlare dei problemi del proprio quartiere solo dopo aver squadernato le questioni internazionali, ma l’opposta abitudine di eludere completamente la dimensione estera non è che una delle forme della nostra subalternità.

Il segretario del nuovo partito popolare dovrà essere anche il suo ministro degli esteri. Poi: la politica estera è oggi, nel nostro paese come in altri, il frutto dell’iniziativa di un reticolo di attori di cui non è detto che il Ministero degli esteri sia sempre il regista e nemmeno il capocomico. Agenzie governative varie, regioni, Ong, pool di imprese o singole imprese di grandi dimensioni (vedi Eni) hanno da tempo (e soprattutto le ultime) ben più che una voce in capitolo. Fare o preparare politica estera significa lavorare da subito ad un progetto di centralizzazione dei suoi svariati organismi: di ripubblicizzazione dell’azione internazionale dell’Italia.

Infine: comunque la si voglia affrontare, la politica estera di un paese che vuole sottrarsi alla logica neoliberista, incamminarsi verso una prospettiva socialista o anche solo recuperare la sovranità monetaria sarà oggetto di seri attacchi. Vi si potrà far fronte solo grazie alla coesione della coalizione popolare. Più larga e salda è l’alleanza più sarà autonoma la politica estera. Più sarà efficace la politica estera, più si rafforzerà la coalizione popolare.