IL LAVORO. La necessità di un paradigma sociale ed economico alternativo.
Se vogliamo uscire dalla narrazione corrente, completamente assorbita dalla dualità azione- reazione all’interno dello stesso paradigma sociale ed economico, è necessario comprendere a fondo quel paradigma, come ci siamo finiti, per poi avanzare delle proposte di uscita. Essere una Nuova Direzione per noi significa voler uscire dal sistema, non essere una forza vettoriale alternativa all’interno dello stesso.
La società futura sarà segnata inevitabilmente da come ci porremmo rispetto al tema del lavoro, al suo significato più profondo, personale, sociale ed economico, su cui sia possibile, finalmente, declinare delle risposte ai temi cardine della rivoluzione tecnologica, della stagnazione secolare, della globalizzazione e del socialismo per il XXI secolo.
Il Lavoro e la Moneta
Il fuoco intorno al quale dobbiamo tornare a far girare il sistema è il lavoro, perché attualmente è il denaro. Tutto si muove, si blocca o si giustifica con il denaro, la sua mancanza o il diritto privato ad accumularlo. Viviamo in una economia monetaria di produzione. Come scriveva Minsky nel 1990 “Solo ciò che viene finanziato può essere realizzato” e “lo scopo di qualsiasi attività economica è fare un guadagno monetario”. La seconda è la caratteristica principale del Capitalismo. Si produce per denaro, si lavora per denaro, si investe per avere un ritorno in denaro. Il valore è determinato dal prezzo di mercato, ciò che è fuori mercato non ha valore. Quindi tutto deve essere nel mercato. Anche il settore pubblico. Gli enti pubblici sono diventati “aziende”.
Non è sempre stato così.
La moneta è nata all’alba dei tempi per mobilitare il lavoro, per la produzione di beni e servizi, per l’approvvigionamento del settore pubblico. E ha origine nelle istituzioni, non nel mercato (M. Innes, J.F.Henry, Randall L. Wray, M. Hudson, D. Graeber). Il mercato è un utilizzatore della moneta pubblica. La moneta stessa è un’istituzione, non è una merce. Affermare che le istituzioni possano restare senza soldi è un paradosso, una di quelle menzogne ben costruite che servono a mantenere gli equilibri di potere e a giustificare dei vincoli autoimposti (eurozona) del tutto pretestuosi. Le stesse leggi economiche, considerate vincolanti e insuperabili, su cui si poggia, vengono serenamente sospese ogniqualvolta che il mercato ha bisogno di soldi e va a chiederli a coloro che li creano, veramente: Governo e Banca Centrale. Gli esempi sono innumerevoli. Negli USA, il paese dello slogan “starve the beast”, la FED ha creato trilioni di dollari per salvare le banche e fermare il crollo dell’economia nei giorni della Grande Crisi Finanziaria. Non erano i soldi dei contribuenti. Ci ha tenuto a chiarirlo Bernanke di fronte al Congresso nel 2008 Vedi l’intervista su https://youtu.be/U_bjDAZazWU . Nessun cittadino americano ha pagato quel salvataggio. La moneta si può creare dal nulla, la domanda vera è per farci cosa.
Spendere male porta un’economia al disastro, e questo vale per la spesa pubblica, come per quella privata. L’idea per cui i privati spendono meglio, sono efficienti, perché devono rispettare dei parametri di profittabilità, è pretestuosa, visto che quel vincolo – il diritto al profitto – è il motivo per cui investono. Il profitto è lo scopo, tutto il resto non conta. Se dunque la moneta nasce per mobilitare il lavoro, è quella la risorsa più preziosa di un paese. Dobbiamo quindi spostare il fuoco sul lavoro, la sua importanza, e promuovere una nuova cultura del lavoro, perché oggi è totalmente asservito al profitto, all’efficienza di mercato. Il lavoro, nella società di mercato che si è oramai costituita, ha assunto in sé una serie di negatività intollerabili: è fonte di alienazione, di sfruttamento, e quando non c’è, di privazione di reddito e di partecipazione.
Perché lavoriamo?
Questa domanda ci assilla continuamente.
Abbiamo bisogno di riscoprire il senso del nostro lavoro, il ruolo che ciascuno di noi ha nella società. La società nasce per rispondere a due questioni di importanza vitale per ciascuno di noi: la suddivisione dei compiti e il bisogno di sicurezza. Il primo è quello centrale per lo svolgimento di questa analisi, il secondo è in buona parte legato al primo.
E’ indiscutibile, in una società complessa, la necessità di specializzazione per produrre tutto ciò di cui abbiamo bisogno per soddisfare sia funzioni basilari – mangiare, vestirsi, riscaldarsi, lavarsi, dormire in un luogo asciutto e pulito- sia lo sviluppo di talenti e capacità personali, aspirazioni, intuizioni e innovazioni che portino ad un progresso collettivo concreto e a stadi di avanzamento inimmaginabili alle generazioni precedenti. Non solo dal punto di vista materiale, ma anche scientifico, spirituale e intellettuale. E’ indubbio che per molti aspetti la nostra vita non sia paragonabile a quella dei nostri avi. Mia nonna lavava le lenzuola nei fossi, con la cenere della stufa. Ci metteva una giornata intera a star dietro alle lenzuola, tempo che avrebbe potuto dedicare a fare altro.
Tutto questo rientra nella categoria del progresso reale, condiviso, o almeno condivisibile, con il resto della comunità, che è il risultato di uno sforzo personale e collettivo.
Ma perché per molti la fatica quotidiana è diventata sinonimo di abbruttimento e umiliazione, di privazione economica e di inutilità sociale? Il lavoro può assumere un valore negativo nel momento in cui viene utilizzato non per le finalità sociali per cui è nato, ma per l’estrazione di profitto monetario da parte di attori privati, da parte di un mercato sganciato dalla società, privo di controllo e regolamentazione.
Lavorare senza avere un beneficio per sé e per la società, è un sacrificio innaturale.
L’utilizzo del lavoro umano per fine privato, che non abbia ricadute positive sulla collettività, non è solo un furto, è appropriazione indebita di un bene collettivo. Pensare che il sistema capitalistico,l’economia di mercato, possa funzionare per il bene di tutti è una grande illusione. “Il capitalismo è la sbalorditiva convinzione che il più malvagio degli uomini farà la più malvagia delle azioni per il massimo bene di tutti”(J.M. Keynes). Dal punto di vista strettamente economico, il capitalismo è addirittura regressivo. Come diceva Thorstein Veblen “Il mercato è per natura disfunzionale, non può essere efficiente, non può promuovere il progresso perché un’impresa non deve essere produttiva, efficiente o utile, l’unica cosa che conta è che può generare denaro, cosa che potrebbe implicare il sabotaggio della produzione stessa per mantenere in modo artificiale la scarsità”. Il capitalismo non crea lavoro, lo distrugge. E il concetto lo esprime magnificamente Randall L. Wray, nel suo pezzo “The Efficency Fairy and the Inflation Goblin”
“Si proclama il “creatore di posti di lavoro” ma, come sappiamo, un buon imprenditore, è un distruttore di posti di lavoro. Il che è quanto si suppone debba fare il processo darwiniano: aumentare l’efficienza distruggendo posti di lavoro. Si è capito da molto tempo – sin dai tempi di David Ricardo – che il “processo industriale” è un distruttore netto di posti di lavoro, poiché rimpiazziamo lavoro umano con le macchine. È vero che le nuove linee di business ed i nuovi mercati aprono nuove opportunità lavorative, ma i nostri bravi imprenditori inizieranno immediatamente a distruggere quanti più posti di lavoro possibile alla ricerca dell’incremento della produttività [e del profitto, precisazione mia]. Nessuna forza di mercato assicura che, a conti fatti, si creino nuovi posti di lavoro più rapidamente di quanto gli imprenditori possano distruggerli. E la distruzione di posti di lavoro distrugge anche i mercati di beni e servizi realizzati dai lavoratori rimanenti – così la forza naturale del mercato è sempre distruttiva (Schumpeter la chiamava “distruzione creativa”).”
Come si può limitare il mercato, qual è il ruolo che devono giocare e quale la percentuale effettiva di partecipazione che possono avere lo Stato e le istituzioni pubbliche in genere nell’economia, per essere funzionali ad uno sviluppo armonico ed equo e non un peso, come spesso viene definito? Quali sono i veri termini del rapporto tra settore pubblico e settore privato nell’economia di un paese?
Il dibattito economico su queste domande c’è stato e c’è ancora, nel più totale disinteresse della classe politica.
Gli economisti Harold Vatter e Jhon Walker nel 1997 scrivevano:
“in una politica fiscale ben condotta, la spesa dello Stato deve salire rapidamente quando gli investimenti salgono in modo tale da assorbire l’aumento di capacità produttiva, e ancora di più quando gli investimenti scendono in modo da impedire il collasso della domanda effettiva” La definiscono quindi come una “chiave a cricchetto” piuttosto che un mero intervento anticiclico, troppo riduttivo del ruolo che deve avere costantemente nell’economia, fino ad arrivare ad affermare che la partecipazione dello Stato nell’economia dovrebbe aumentare indefinitivamente“.
Adolf Wagner, la cui famosa legge viene citata dai due economisti, aveva argomentato che lo sviluppo economico porta ad industrializzazione e urbanizzazione e questo genera un aumento assoluto, oltre che relativo, della domanda di servizi aggiuntivi da parte del Governo. Quindi, per ragioni sia politiche che economico-sociali, il settore pubblico dovrebbe crescere più velocemente del tasso di crescita economico. E se non lo fa, non solo lascia la società priva di servizi essenziali, ma genererà anche stagnazione a causa del problema di Domar (la crescita della domanda effettiva è più lenta dell’aumento di capacità produttiva).
Queste argomentazioni, osteggiate dalla narrativa mainstream, vanno a porre degli interrogativi scomodi sull’effettiva sostenibilità del sistema capitalistico, e contengono dei principi imprescindibili che vengono volutamente ignorati perché rilevanti per la comprensione del sistema stesso, e le implicazioni politiche che ne derivano sono potenzialmente sovversive nei confronti dei rapporti di potere consolidati finora, con tanta fatica e spesso operazioni fraudolente, se non propriamente criminali. Ciò non di meno, sono totalmente reali. Tanto da essere usati in modo spudorato per garantire le attuali posizioni di supremazia da chi pure nega pubblicamente la loro importanza, e sono di fatto riconoscibili in quasi tutti i fenomeni economici e finanziari contemporanei. Globalizzazione compresa.
Fra questi principi imprescindibili, i due principali sono che la moneta e il mercato sono creature della legge.
La moneta è un monopolio pubblico, è una istituzione, non è una merce. Di più, è un credito fiscale. Senza la tassazione non esiste e non ha valore (n.b. le cripto valute sono commodities, non sono moneta vera e propria). Nasce dal “sovrano”, nell’accezione più estesa del termine, per mobilitare la forza lavoro e le risorse reali verso una finalità specifica e pre-determinabile. Non esiste moneta privata. La moneta non è nata dal mercato, ma dal sistema delle relazioni sociali in rapporto all’autorità costituita, dal sistema tributario e dal sistema penale (Wirgild). Solo successivamente è stata introdotta nel mercato, in quanto unità di conto. Il suo non è necessariamente un valore di mercato. Come diceva Aristotele “La moneta è chiamata nomisma perché non esiste per natura ma per nome, è accettata per accordo. E’ in nostro potere la facoltà di cambiare il valore della moneta e renderla inutile, senza riguardo al suo valore d’uso corrente“
E’uno strumento di potere politico, ancor prima che economico.
Senza la struttura istituzionale pubblica, dunque, non esiste moneta e non esiste mercato.
Il problema è tutto in chi controlla le istituzioni e il potere legislativo.
La nostra Costituzione nasce proprio dal riconoscimento del limite e della crisi della centralità della legge (Massimo Luciani “Costituzionalismo Irenico e Costituzionalismo Polemico”), dalla necessità di controllare il potere legislativo, di porre un vincolo al potere creativo o distruttivo della stessa.
E qui arriviamo al terzo principio imprescindibile, il concetto di sovranità.
E’ necessario capire cosa implica, la sua duplice natura, e Martin Loughlin, emerito giurista e professore della LSE, nel suo “Constitutional pluralism: An oxymoron” (2014), lo spiega in modo chiaro e sintetico: il possesso di strumenti di potere quasi illimitati e la capacità di limitare quel potere tramite i vincoli costituzionali. Un sovranismo che si rifà solo al primo elemento, nasconde una volontà di potere assoluta.
Non esiste un vincolo pari a quello costituzionale per le forme istituzionali cosmopolite e sovrastatali. Sono decenni che se ne discute, senza risultati. L’ingegneria istituzionale ha limiti concreti quanto quella finanziaria. Si creano bolle che poi esplodono. Il conto lo pagano gli ultimi nella catena alimentare del sistema sociale.
E’ dunque necessario un rientro alle istituzioni nazionali legittime, non la fuga da esse.
E questo passaggio, che molti ritengono l’unico effettivamente possibile per risolvere le storture prodotte dalla globalizzazione, merita una riflessione. Prima di intraprendere vie impraticabili, era davvero così limitato e limitante il nostro sistema costituzionale, tanto da rendere necessario abbandonarlo?
L’Italia è una Repubblica Democratica di Diritto Costituzionale, una forma statuale di tipo nuovo, che inaugura una democrazia dinamica e dialettica fra le forze sociali, le quali devono trovare una mediazione ai conflitti nell’interesse generale (Costantino Mortati “La persona, lo Stato e le comunità intermedie” 1956). Uno Stato che è considerato «allo stesso tempo come oggetto della lotta e spazio della trasformazione sociale» (Rosavallone, Viveret). Il conflitto non viene represso, ma spinto a manifestarsi e ad esprimersi apertamente in un agone legittimo e protetto, il Parlamento, perché è il motore stesso di quella tensione e contrapposizione sana tra interessi e visioni diverse, che deve raggiungere ogni volta un punto di equilibrio e di compromesso accettabile e, comunque, temporaneo. La legislatura successiva può cambiare molte cose, ma non tutte le cose. Una democrazia vivace e molto impegnativa, la nostra. Mal compresa e mai accettata perché difficile da deviare in questo quadro istituzionale, senza la creazione di vincoli esterni ad essa, artificiali. Non è un caso che Carlo Lavagna, quasi profeticamente, nel 1978 scrivesse in Costituzione e Socialismo “tutta la Costituzione è, in qualche modo, strumentalizzata al perseguimento dei fini ultimi da essa indicati: sì da realizzare un tipico “sistema progressista” a “senso unico”. Un “sistema misto” ineluttabilmente destinato a risolversi in un sistema di tipo socialista: a meno che non intervenga, in questo naturale processo evolutivo, una “causa esterna modificatrice”, per dirla con Galileo Galilei, in pratica, un colpo di Stato delle forze conservatrici”
Le istituzioni sono importanti.
Non basta modificare il modello economico, per distruggere un modello politico vanno modificate le istituzioni.
E’ quello che è accaduto quando è stata implementata l’integrazione in un modello istituzionale altro, la Governance Europea. Il Governo, l’esecutivo, ha acquisito un’importanza preponderante che non aveva, in quanto nesso chiave del processo decisionale Europeo. E la supremazia della legge europea ha by-passato i Parlamenti nazionali e le Costituzioni con quello che è stato definito “un colpo di stato giuridico” da Alec Stone Sweet. Quello che voglio dire è che il nostro primo problema in Europa non è l’abbandono del modello economico Keynesiano – che, per esempio, in Italia non abbiamo mai avuto, eppure siamo riusciti ad ottenere diritti del lavoro, welfare e sanità pubblica – ma è l’abbandono del modello istituzionale democratico che avevamo e che la classe industriale e finanziaria “padronale”non era riuscita ad addomesticare, perché il limite giuridico è arduo da scavalcare. La creazione di piattaforme sovrannazionali come quella Europea è funzionale ad imbrigliare il controllo democratico vigente nelle istituzioni nazionali e orientarlo ai bisogni del capitale privato (vedi Martin Hoepner, Max Plank Institute “The Myth of Social Europe” 2018).E in questa lotta di potere a cadere sul campo sono stati i diritti sociali, la forza contrattuale del lavoro e la democrazia. E certamente anche la teoria economica Keynesiana, passata dall’essere considerata “la teoria”, a mera eterodossia, salvo poi recuperarla quando il capitale ha bisogno di sussidio statale, e solo per quello scopo.
Il nodo che resta da affrontare è cosa vogliamo che l’economia faccia. Qual è il suo scopo. Consapevoli che qualsiasi risposta diversa da “massimizzare il profitto monetario privato” implica, necessariamente, il superamento del sistema capitalismo in tutte le sue forme (neoliberismo, ordoliberismo), anche quelle edulcorate (socialdemocrazie), perché il lato bonario si eclissa presto. Il capitalismo non è compatibile con istituzioni democratiche e l’interesse collettivo. Ha bisogno di mercificare tutto, di inglobare tutto nel mercato. Se agli atti delle assemblee della costituente si parla in modo esplicito di dover superare l’economia di mercato, un motivo c’è. E se scacciata dalla porta, è rientrata dalla finestra, pure. Non avevamo generato sufficienti anticorpi culturali e sociali. Abbiamo venduto la nostra Repubblica al Gatto e alla Volpe per un posticino nel Campo dei Miracoli, dove per quante lacrime abbiamo versato a innaffiare il terreno, non è cresciuto nulla e abbiamo perso tutto.
MARX’s quaderni etnografici:
“Among the ancients we discover no single inquiry as to which form of landed property. etc., is the most productive, which creates maximum wealth. Wealth does not appear as the aim of production, although Cato may well investigate the most profitable cultivation of fields, or Brutus may even lend money at the most favorable rate of interest. The inquiry is always about what kind of property creates the best citizens. Wealth as an end in itself appears only among a few trading peoples—monopolists of the carrying trade—who live in the pores of the ancient world like the Jews in medieval society…
Thus the ancient conception, in which man always appears (in however narrowly national, religious or political a definition) as the aim of production, seems very much more exalted than the modern world, in which production is the aim of man and wealth the aim of production. In fact, however, when the narrow bourgeois form has been peeled away, what is wealth, if not the universality of needs, capacities, enjoyments, productive powers, etc., of individuals, produced in universal exchange?”(1854 [1965:84])
Se davvero desideriamo uscire da un sistema in cui lo scopo dello sforzo economico e produttivo è il profitto monetario e a decidere l’indirizzo economico è il mercato, allora dobbiamo porci in una prospettiva nuova e decidere COSA, COME e PERCHE’ produrre, e come distribuire socialmente il lavoro e il suo prodotto, sia che questi processi coinvolgano il mercato oppure no (W.M. Dugger, 1966, From market allocation to social provisioning). Il mercato non è l’economia. Farli coincidere è stato il peggior errore commesso dalle nostre classi dirigenti. Addirittura, essere riuscito ad inserire le istituzioni pubbliche e le amministrazioni locali nella competizione di mercato è stato il più grande successo del capitalismo, avendo così imbrigliato le uniche forze capaci di contrastarlo, facendole perfino lavorare per realizzare l’interesse privato al massimo grado, impossibile senza la loro partecipazione attiva ma subalterna, come nelle partnership pubblico-privato.
Lo Stato non deve essere “imprenditore”, fare mercato. Nonostante questa visione sia spinta da notevoli economisti, alcuni senza dubbio brillanti, quali la Mariana Mazzucato, è tuttavia un tentativo di mistificare il potere e il dovere che lo Stato ha di spiazzare il mercato dall’economia, quando necessario. Il vantaggio per il settore privato è perfino superiore (vedi discorso precedente di Vatter, Walker e Wagner).
Sul risultato perverso e, spesso, drammatico per i cittadini, del procedimento inverso, lo spiazzamento dello Stato dall’economia, ci sono innumerevoli esempi, tra cui certamente quello del Ponte Morandi, a seguito delle concessioni autostradali. Ma ce ne sono anche di silenziosi, che non arrivano alla ribalta della cronaca, ma modificano la vita delle persone in modo più profondo. La riduzione del finanziamento al settore sanitario e assistenziale, dovuto ai vincoli di bilancio, ha creato una domanda di servizi che resta inevasa dallo Stato, a cui i cittadini hanno dovuto sopperire a proprie spese (lo chiamano welfare familiare), aprendo così nuove opportunità commerciali per gli attori privati, aziende e assicurazioni, che possono entrare con la loro offerta, là dove il pubblico si è ritirato, rendendola sempre più strutturata e pervasiva, sino ad aprirsi fette di mercato sempre più vaste, conquistando nuovo terreno all’interno dello Stato Sociale. Non è un caso che UNIPOL abbia redatto un rapporto sulla White Economy di un paio d’anni fa, dove si legge:
“Oggi, come si è visto, le famiglie italiane hanno creato, in maniera spontanea, un mercato privato della sanità che fa leva su circa 32 miliardi di euro, cui si aggiungono i circa 9 miliardi di euro che vengono spesi per le badanti, una componente essenziale del “fai da te” della Long Term Care all’italiana“.
Sorvolando sulla bestialità dell’attributo “spontanea”, andiamo a vedere i numeri. La tabella sottostante riporta l’analisi dettagliata della grande opportunità che gli intermediari assicurativi possono cogliere dalla spesa attualmente fatta in modo diretto delle famiglie italiane per l’assistenza, per introdursi con offerte innovative dedicate su cui lucrare.
ANALISI DELLA FASE CAPITALISTICA ATTUALE
Dal capitalismo dei gestori di fondi finanziari (money manager capitalism) al neofeudalesimo e alla costituzione di una neo-aristocrazia capitalistica.
Il capitale privato punta ad assicurarsi i monopoli naturali (infrastrutture, utilities, telecomunicazioni, trasporti pubblici), la gestione del welfare, la White Economy (sanità, pensioni, assicurazioni) per due motivi: il primo è che sono mercati fruttuosi e con clienti certi e numerosi (tutti devono avere l’acqua in casa, curarsi, spostarsi) e la rendita è cospicua, il secondo è che il capitalista è tutto fuorché un capitano coraggioso, sa perfettamente che il rischio di mercato esiste ed è concreto, e fa di tutto per mettersi al sicuro da esso. La meritocrazia (corollario della competitività) è un mito utile a far mettere tutto in partita, ad esclusivo vantaggio di chi ha il potere di fare cappotto. Viene in mente la socializzazione di mercato delle proprietà di Stato per mezzo di azioni distribuite tra la popolazione durante lo smantellamento dell’Unione Sovietica, che ha permesso a pochi oligarchi di accaparrare quote di controllo su aziende, beni immobili e società dal valore immenso, in cambio di qualche pacco di zucchero e scatoletta di cibo.
L’instabilità parossistica prodotta dall’ingegneria finanziaria degli ultimi vent’anni, sta spingendo l’economia capitalistica a passare dalla fase della gestione dei fondi (money manager capitalism) alla più stabile rendita di tipo neofeudale (M. Hudson), basata su rendite finanziarie immobiliari (la speculazione sui terreni, le aree commerciali e residenziali – vedi Laurie Macfarlane, Louis Moreno), rette per servizi pubblici privatizzati, pedaggi (strade, ponti, tunnel), canoni d’affitto come nei Project Financing.
Stiamo molto attenti a questo passaggio, perché è un cambio di fase che va colto per tempo e compreso a fondo. Il capitalista sa che il vero controllo è quello sulle risorse reali, sul lavoro, sulle fonti energetiche, l’economia finanziaria è un gioco rischioso, la normalizzazione capitalistica punta oggi alla rendita sicura.
Quanto potere vogliamo ancora concedere a chi non viene eletto in un Parlamento democratico? Quanto ancora vogliamo spingere la nostra società al consumo edonistico che dissipa beni e risorse reali? Una sovrabbondanza per pochi che porta ad uno spreco inaccettabile e alla scarsità per molti. Per quanto ancora vogliamo considerare un diritto l’accumulo di ricchezza privata (appropriazione indebita di bene pubblico, la moneta), che porta ad uno squilibrio di potere fuori dal controllo democratico?
“Quando l’accumulazione di ricchezza non rivestirà più un significato sociale importante, interverranno profondi mutamenti nel codice morale. Dovremo saperci liberare di molti dei princìpi pseudomorali che ci hanno superstiziosamente angosciati per due secoli, e per i quali abbiamo esaltato come massime virtù le qualità umane più spiacevoli. Dovremo avere il coraggio di assegnare alla motivazione «denaro» il suo vero valore. L’amore per il denaro come possesso, e distinto dall’amore per il denaro come mezzo per godere i piaceri della vita, sarà riconosciuto per quello che è: una passione morbosa, un po’ ripugnante, una di quelle propensioni a metà criminali e metà patologiche che di solito si consegnano con un brivido allo specialista di malattie mentali” (Keynes, Esortazioni e Profezie)
Contrastare la disuguaglianza, la predistribuzione vs redistribuzione.
Va molto di moda Piketty, ma alcuni economisti (e.g. R.D. Wolff; R.L. Wray) hanno evidenziato gli aspetti negativi delle politiche redistributive basate principalmente su patrimoniali o aumento delle percentuali di prelievo fiscale ai redditi alti, riassumendoli in tre: il primo, non durano mai a lungo; il secondo, l’opposizione all’inasprimento fiscale usato per la redistribuzione è estremamente divisiva a livello sociale; il terzo, sono inefficienti, in quanto richiedono un aumento di uffici, controlli e burocrazia, che aggiungono costi e impiego di risorse umane per essere implementate.
Questo non significa che non si debbano applicare politiche di questo tipo, l’accumulo di ricchezza va decisamente contrastato con una tassazione progressiva molto elevata ai redditi maggiori, ma vanno unite ad un uso della politica di bilancio dello Stato e della regolamentazione economica che prevengano un afflusso monetario eccessivo a pochi, la creazione di credito fuori dal sistema bancario e dal controllo legislativo (Shadow Banking), forme di speculazione fondiaria e immobiliare, che accrescono il patrimonio privato in modo fittizio, e la rendita finanziaria. Una volta che ce l’hanno in tasca, è difficile tassare la ricchezza, i ricchi hanno mille modi per evadere il fisco, trasferire i fondi off-shore, pagare think-tank e politici per far modificare le leggi.
Non possiamo attendere di tassare i ricchi per provvedere ai poveri, ai lavoratori subordinati, ai disoccupati, ai malati, ai giovani. La predistribuzione è una scelta migliore della sola redistribuzione. Implica una spesa di bilancio per programmi di lavoro di ultima istanza, servizi essenziali (sanità, scuola, giustizia) gratuiti, utenze quali acqua, gas, elettricità, telecomunicazioni a prezzi calmierati (riportandoli fuori mercato) e trasporti pubblici gratuiti, etcc. Tutte misure che aumentano la prosperità sociale e integrano in modo sostanziale e garantito il reddito del cittadino. I servizi essenziali andrebbero resi universali ed esclusivamente pubblici, togliendoli al mercato totalmente. Non si fa impresa con la salute e l’educazione dei cittadini, né con le utenze primarie. Inoltre nei settori in cui c’è monopolio di Stato è possibile usare gli strumenti della pianificazione economica, abbattendo i costi, controllando le risorse necessarie (finanziarie, strumentali, umane) e allocandole al meglio. Il servizio pubblico universale ed esclusivo previene la disuguaglianza di trattamento per classi di reddito e costringere i ricchi ad utilizzarli. Quest’ultima cosa è fondamentale per evitare che si coalizzino per opporsi al loro ammodernamento, alla loro espansione e al loro finanziamento, come fanno oggi, perché hanno alternative e guadagnano entrando nel business dei servizi privatizzati. La scuola in Finlandia segue questo principio, è solo pubblica e le classi agiate si preoccupano che i plessi territoriali siano della massima qualità, perché li frequentano i loro stessi figli. Altra conseguenza, da non sottovalutare, favorirebbe l’implementazione di politiche per l’integrazione efficaci, che oggi sono pressoché inesistenti, dal momento che l’incontro con gli immigrati non sarebbe evitabile in alcun modo, nell’esperienza quotidiana loro e dei loro figli, e questo andrebbe a ridimensionare in modo automatico la retorica paternalista dei porti aperti “c’è posto per tutti” a cui si sono attaccati in questi anni per nobilitarsi moralmente, al riparo dalle conseguenze sociali negli attici del loro privilegio di classe.
A COSA SERVONO LE TASSE e come si applicano politiche tributarie ottimali in una nazione sovrana.
Va compreso il motivo di fondo per cui le risorse finanziare di uno stato non dipendono più dalla tassazione. Una volta abbandonato il Gold Standard ed entrati in un regime monetario fiat, lo Stato non deve fare pareggio di bilancio. Questo lo scriveva ancora nel 1946 Beardsley Ruml, economista e consigliere di Roosevelt per il New Deal, quando era direttore della Federal Reserve di New York, in un famoso documento pubblicato su Amarican Affaires dal titolo esplicito “Taxes for Revenue are Obsolete”. E ancora:
“The necessity for a government to tax in order to maintain both its independence and its solvency is true for state and local governments, but it is not true for a national government. Two changes of the greatest consequence have occurred in the last twenty-five years which have substantially altered the position of the national state with respect to the financing of its current requirements.
The first of these changes is the gaining of vast new experience in the management of central banks.
The second change is the elimination, for domestic purposes, of the convertibility of the currency into gold”
Di grande interesse anche questo passaggio:
“The superior position of public government over private business is nowhere more clearly evident than in government’s power to tax business. Business gets its many rule-making powers from public government. Public government sets the limits to the exercise of these rule-making powers of business, and protects the freedom of business operations within this area of authority. Taxation is one of the limitations placed by government on the power of business to do what it pleases”
Sono sempre di più gli economisti che riconoscono che i vincoli di bilancio agli Stati sono pretestuosi, non giustificati da una costrizione finanziaria reale. La moneta non è una risorsa scarsa. Perfino Draghi, ad una conferenza stampa di un paio d’anni fa, ha dichiarato che la BCE tecnicamente non può finire gli euro. I vincoli sono scelte politiche. E le scelte politiche devono tenere conto del ciclo economico e degli obiettivi che la società si prefigge.
Le tasse, dunque,non finanziano la spesa pubblica. Nemmeno in eurozona, ad onor del vero, visto che la spesa viene finanziata comunque prima, tramite operazioni di vendita di titoli di stato o richieste di finanziamenti, quindi dal mercato o da istituzioni esterne (FMI). Il livello di tassazione influisce sul saldo finale e va a determinare il deficit, il rapporto tra spesa ed entrate fiscali, a consuntivo. In eurozona quel rapporto deve stare all’interno di parametri ben definiti, ma difficili da centrare, non solo perché i governi sono privati degli strumenti d’intervento macroeconomico, ma perché sono indicatori che vengono scambiati per obiettivi. Nessuna politica economica sana deve impostare gli obiettivi su indicatori numerici o tassi predeterminati di deficit, debito, disoccupazione (se fosse di occupazione, sarebbe davvero l’unico da dover seguire: tasso massimo di disoccupazione frizionale 2%) perché per raggiungerli si rischia di implementare politiche dannose per l’economia o di ottenere il risultato opposto (aumentarli, anziché diminuirli). Il nostro deficit, nonostante anni di tassazione elevata, è comunque rimasto sopra il parametro fissato a causa della perdurante stagnazione economica, dell’aumento di inattivi e precari, della spesa per interesse sui titoli. La differenza tra sovrano e non-sovrano è nella capacità di bilancio, nell’indipendenza dal mercato per il finanziamento della spesa pubblica, sul volume di spesa che può mettere in campo, che potrebbe alzare il deficit a percentuali a due cifre, oppure no. E’ un rapporto. Se cresce il PIL e l’occupazione, le entrate fiscali aumentano. Dire 3%, 5% o 9% non significa nulla, l’indicatore va letto nel contesto. Il 9% di deficit per salvare banche implicate in operazioni fraudolente, non è buona spesa di governo. E non lo sarebbe nemmeno se fosse al 3%. Un governo sovrano, inoltre, può decidere di spendere senza emettere debito e quindi in modo diretto (emettere titoli di stato è una scelta, ci sono altri modi che la banca centrale può utilizzare per controllare il tasso interbancario), può decidere di abbassare le tasse o di pagare meno interessi sui titoli che decide di emettere, vendendoli sul mercato a tasso zero (che è comunque più vantaggioso rispetto ai tassi negativi attualmente fissati sul Bund tedesco, per dire).
Le tasse sono dei buoni paletti per guidare il paese verso determinati obiettivi di politica economica e determinati obiettivi di comportamento sociale. Il principio da seguire è “tax bad, not good”: tassa ciò che non va bene e ci fa male, non tassare ciò che è buono. E’ una rivoluzione, dal momento che oggi si tassa tutto il possibile, soprattutto dove si può prendere con facilità (lavoratori dipendenti, partite iva, vedi gli assurdi studi di settore), alla faccia dell’equità fiscale.
Partendo da questo principio, risulta evidente che si devono scoraggiare con tassazioni draconiane l’economia del lusso – cioè produzioni costose (in termini di materiali, impiego di forza lavoro, risorse energetiche) per il consumo di pochissimi – e le produzioni inquinanti, per promuovere una svolta ecologica dell’economia, oltre a tutto ciò che danneggia la salute fisica e mentale degli individui (slot-machine, fumo, etc…). E’ controproducente tassare il lavoro, il consumo non di lusso. Soprattutto va premiata la produzione di beni e servizi reali, rispetto alla creazione e al commercio di beni finanziari.
Per fare degli esempi concreti, ci sono attività professionali e artigianali importanti quali l’impiantistica (idraulica, termoidraulica, elettrica), la carpenteria, la falegnameria,etc.. cioè quel mondo del lavoro autonomo che costituisce una base di servizi indispensabili, che hanno bisogno di un taglio consistente della tassazione, per permettere che si sviluppino e creino posti di lavoro desiderabili anche per i giovani, mentre attività quali la mediazione creditizia non bancaria, il trading e tutto il mondo della promozione finanziaria, che andranno tassate maggiormente, in quanto manifestazione di un modello economico e sociale che va demolito alla base, senza pietà. Lo Stato non ha bisogno delle tasse per spendere, non deve accumulare “tesoretti”. La tassazione deve essere equa, il fine non è quantitativo, ma qualitativo. Il paradosso di questo approccio è che più sarà efficace e minori saranno le entrate. Questo non significa che le tasse possano essere eliminate. Va mantenuta una tassazione capillare, non predatoria, per fissare l’uso della moneta a corso legale. Tassare è un’arte di governo sopraffina.
Per concludere, non basta sapere che i soldi ci sono per fare tutto quello che tecnicamente è possibile realizzare (Fagg Foster), bisogna decidere cosa, come e perché. Una volta liberi, c’è l’imbarazzo della scelta, la paura di sbagliare e l’inadeguatezza al compito. Una classe politica che abbia già in mente un programma, un modello sociale ed economico a cui aspirare, consapevole del funzionamento delle economie monetarie moderne, è in grado di accettare la sfida e superare l’impasse con una certa disinvoltura. Nulla di ciò che è stato fatto in passato può essere recuperato. Va fatto tutto in modo diverso, soprattutto con un approccio diverso, ed è bene che sia così. Ripetere gli errori è diabolico, farne di nuovi, amplia la conoscenza dell’umanità, col rischio di azzeccare anche qualche mossa, finalmente. E’ tempo di cambiare.
Stuart Chase, l’economista che diede il nome e ispirò il New Deal di Roosevelt, nel libro “ A New Deal” del 1932 scriveva “il potere d’acquisto illimitato per una quantità infinita di sciocchezze e una valuta gestita in modo da sottoscrivere le richieste dei creditori in perpetuo, renderà solo peggiore l’esplosione finale. La terza via, se questa è davvero una via di sinistra, deve portare ad un territorio filosofico completamente nuovo, dove l’attività economica cessa di essere un gioco e lo stimolatore dell’ego, e diventa una cosa seria, che la comunità deve poter controllare in sua difesa. Le abitudini lavorative della popolazione non richiedono una grande cambiamento, è l’atteggiamento che deve cambiare completamente”.
Per analizzare in modo più semplice e concreto le posizioni espresse finora, è possibile partire dalle argomentazioni chiave della narrativa corrente, dei veri e propri tormentoni mediatici, prendendoli uno per uno e dandone una visione alternativa, fino a delineare un paradigma nuovo per il lavoro.
- il lavoro è finito! Dicono che siamo in una stagnazione secolare, in una società fredda,che non c’è abbastanza lavoro per tutti, che l’innovazione tecnologica, i robot ci sostituiranno e che la soluzione è un reddito di base garantito. Il lavoro è finito, andate in pace! In realtà non c’è nessuna stagnazione naturale. Abbiamo affidato la guida dell’economia al mercato, che è regressivo e distrugge posti di lavoro, tutti quelli che può eliminare per estrarre profitto da un’economia che diventa sempre più anemica e debole, fredda. Ogni tanto ha un sussulto, ma come dice l’adagio, “anche un gatto morto rimbalza”. Il reddito minimo garantito è una proposta nata nella Silicon Valley, serve a garantire la capacità di consumo minima a far sopravvivere i maggiori player del mercato. In questo modo c’è un’intera fetta di economia e società che non può riprodursi, a cui stiamo rinunciando.
- La tesi della fine del lavoro discende da due postulati, il primo è che il lavoro lo crea il mercato e il secondo che il lavoro è reddito.
E’ il mercato che crea posti di lavoro? Sono le imprese? No. E’ la domanda di beni e servizi. Nasciamo nudi a questo mondo, senza niente e un’infinità di bisogni da soddisfare. Il mercato ce li procura, ma solo in parte. Alcuni servizi, alcune strutture, fondamentali e strategiche per l’interesse pubblico, è bene non siano lasciate a chi deve trarne profitto. Il mercato è utile in molti modi, ma in nessuno di quelli che ama accreditarsi. Le imprese hanno la tendenza a guidare l’offerta rispondendo o addirittura creando (tramite l’uso della pubblicità e del marketing) i bisogni che è in grado di soddisfare e ignorando quelli che non per cui non può vendere una soluzione, perché non ci guadagna. Inoltre le imprese non creano posti di lavoro, se possono li tagliano.
Il lavoro è solo reddito? Lavoriamo per i soldi o i soldi ci fanno lavorare? Entrambe. Ma la seconda è più vera della prima! Davvero crediamo che l’economia serva ad ottenere pezzi di carta con la firma di un banchiere centrale o la faccia del re? E’ un atteggiamento un po’ feticista, di cui dovremo liberarci il prima possibile. Il desiderio di accumulo e di estrazione di profitto finanziario conduce ad avere un’economia disfunzionale e del tutto folle. L’economia serve ad avere case, acqua corrente, fognature, elettricità, scuole, strade, ospedali, cibo, vestiti, medicine, cure e soccorso.
Dunque il lavoro non è solo reddito, ma addirittura il vero reddito è il lavoro, cioè quello che ci procura a tutti i livelli dell’esistenza umana. Il lavoro è potenzialmente infinito. Possiamo permetterci che chi è in grado e vuole farlo, non contribuisca alla vita comune? no, ma come lo paghiamo? E qui c’è il nocciolo duro dell’egemonia culturale che ci inganna da secoli. Non dobbiamo chiederci con che soldi lo Stato può comprare tutto il lavoro che gli serve, perché i soldi sono suoi. Le banche, i privati e i mercati sono utilizzatori della moneta pubblica. Come ci arriva, a loro, è un oggetto di discussione molto interessante: tramite la spesa pubblica, tanto vituperata, o tramite il credito di istituti bancari che hanno la licenza di stato per effettuare questo servizio. Oppure tramite la deregolamentazione del settore finanziario, che crea bolle e instabilità continue.
Una cosa è certa, la moneta non è una risorsa scarsa.
- Un’altra narrativa perniciosa è l’antagonismo tra lavoro e salvaguardia dell’ambiente. La proposta di un Green New Deal fatta da Bernie Sanders è basata su piena occupazione garantita attraverso piani di lavoro green, una conversione in senso ecologico dell’industria (il JG è funzionale alla transizione), investimenti pubblici in ricerca, innovazione e infrastrutture moderne (negli US il gap infrastrutturale è a livelli allarmanti). Il messaggio è chiarissimo: la lotta per l’ambiente può veicolare nuovi posti di lavoro, sviluppo sostenibile, progresso sociale ed economico.
La necessità di una conversione ecologica dell’industria è indubbio, ma è necessario anche il rilancio della politica industriale, oggi interamente affidata al mercato. Per dettare l’indirizzo economico e produttivo del paese è necessaria la ricostruzione delle Industrie Strategiche di Stato, in settori chiave per la crescita delle potenzialità presenti e l’apertura di nuove vie di sviluppo. Le Industrie di Stato agiscono da volano per il settore privato, creano un indotto importante, mantengono il monopolio su scelte e attività strategiche che non possono e non devono ricadere nella logica del profitto e dell’interesse privato. Lo Stato deve finanziare la ricerca scientifica, tecnologica e sulle fonti energetiche alternative. Green New Deal basati su finanziamenti privati o partnership pubblico-private rischiano di deviare l’intero percorso verso soluzioni palliativo, non radicali e certamente non sistemiche, e capital friendly.
- Poi c’è quella per cui la piena occupazione garantita, cioè assoluta, non è possibile, ma solo una relativa,perché esistono: una disoccupazione strutturale che controlla l’inflazione, vincoli di bilancio (lo Stato è come una famiglia)e vincoli imposti dalla bilancia dei pagamenti (che esiste solo in presenza di cambi fissi o predeterminati, nemmeno in eurozona c’è più, grazie a Target 2) o dalle catene del valore, che dipendono interamente dallo sfruttamento delle opportunità che un mercato aperto comporta e sono il risultato delle scelte di attori privati non dei lavoratori, che lo Stato può regolamentare, promuovere o stroncare, se contrarie all’interesse generale. Indicare le catene del valore, principalmente legate all’industria automobilistica in Europa, come elemento imprescindibile, è un atteggiamento che nega il principio di programmazione democratica dell’economia. Il vincolo delle partite correnti e quello delle catene del valore, sono le facce opposte della stessa medaglia, cioè di un’ideologia centrata sul mercato come unico spazio economico esistente. La prima, rimasta agli schemi economici tipici del gold standard, promuove in questo modo l’intervento dello Stato a vantaggio della classe industriale nazionale, la seconda,sottilmente intrisa di anti-statalismo, svaluta la capacità di intervento dello Stato in questi processi o la vuole impedire. Quest’ultima è la posizione di alcuni esponenti della sinistra radicale libertaria, per cui lo Stato è il male, e indicano nel conflitto interno al mercato, tra comunità d’interessi antagonisti, l’unica via praticabile per il riscatto del lavoro. Entrambe non potranno mai tradursi in un avanzamento degli interessi della classe lavoratrice, nel nostro come in altri paesi.
La guida dell’economia va affidata a istituzioni democratiche e propriamente sovrane che indirizzino lo sviluppo dove serve, investano per l’innovazione, creando spazi fuori mercato, di cui c’è necessità inderogabile, e contribuendo, infine, ad aprire nuovi mercati, nuove industrie, nuova occupazione. Dobbiamo operare una riconversione ecologica, ripensare l’urbanistica, costruire infrastrutture, rivoluzionare i mezzi di trasporto, abbiamo talmente tante cose da fare che impuntarsi a fare la guerra di posizione per guadagnare qualche metro del mercato estero attualmente esistente (e obsoleto) è di una povertà di visione che lascia smarriti.
- Poi abbiamo la tesi per cui il lavoro ha un valore monetario a prezzo di mercato, questa piace molto al capitale. In realtà il monopolista della valuta può determinarne il prezzo in modo esogeno al mercato. Il metodo è quello della scorta tampone. Ne scrisse ancora Hyman Minsky, ma la scuola economica che ne ha studiato maggiormente il funzionamento è la Teoria della Moneta Moderna (MMT). Il buffer stock è il programma di lavoro garantito. A chiunque voglia ed è in grado di lavorare lo Stato garantisce un’occupazione, così com’è e dov’è, in un programma gestito dalle amministrazioni locali, ad un salario minimo di dignità (non di sussistenza) che diventa di fatto la base salariale di tutta l’economia domestica, perché nessuno accetterà di lavorare per uno stipendio inferiore. Per approfondire le caratteristiche e l’organizzazione, rimando ad un testo pubblicato qui http://patriaecostituzione.it/2019/03/17/lavoro-di-cittadinanza/ . La valuta di Stato ha bisogno di un’ancora ai prezzi per contenere l’inflazione, e, come faceva notare Warren Mosler ancora qualche anno fa, si è sempre usato il metodo della scorta tampone, scegliendo ogni volta tra diverse opzioni: oro, valuta estera, disoccupazione. Le principali scuole economiche si sono fissate sulla disoccupazione di riserva come àncora ai prezzi, con tutto il carico di sofferenza e ingiustizia sociale che questo comporta. La MMT propone la riserva degli occupati, che oltre a rispettare i diritti umani fondamentali, è anche molto efficace. Il Programma di Lavoro Garantito, in questo modo, fissa il salario minimo e setta il valore della moneta sull’ora di lavoro. In tutto questo processo il mercato non tocca palla. La piena occupazione garantita effettiva, inoltre, entra a gamba tesa nel conflitto capitale-lavoro perché rende la manodopera scarsa per il mercato e impedisce la contrattazione al ribasso (c’è un floor inamovibile), va ad eliminare la precarietà e lo sfruttamento perché pone fine al perenne ricatto tra disoccupazione e lavori detestabili per vari motivi (bullshit jobs, e.g. Graeber).
Un piano di lavoro garantito non sostituisce le assunzioni nel settore pubblico, che sono indispensabili al funzionamento ottimale dello Stato, della sua amministrazione e dei suoi servizi, ma va ad assorbire la disoccupazione a livello locale, laddove non ci sia possibilità di ulteriori assunzioni nel pubblico e il settore privato non sia in grado di offrire nuovi posti in tempi brevi, come in alcune aree geografiche non sviluppate o deindustrializzate dalla crisi, in cui il tessuto imprenditoriale ha bisogno di tempi più lunghi per costituirsi e irrobustirsi. Tempi che non sono neanche lontanamente compatibili con i bisogni urgenti di cibo, riparo e cura di chi non ha un reddito stabile e sopravvive con qualche sussidio e l’aiuto dei parenti.
Le mansioni sarebbero principalmente nella cura del territorio, della comunità e delle persone, tutte attività che non hanno mercato, ma utilità e valore sociale.
Questa misura può certamente comportare un elemento di momentanea, ma certamente necessaria, ristrutturazione del mercato interno. I lavori del settore privato mal pagati vengono messi fuori mercato dalla concorrenza dello Stato – senza conseguenze per i lavoratori, che sono messi in sicurezza dall’esistenza dei programmi stessi. Le imprese poco efficienti che non riescono a stare sul mercato a queste condizioni dovranno chiudere, le altre trarranno vantaggio dalla capacità di spesa dei cittadini coinvolti nei programmi. I salari sono una componente imprescindibile della domanda interna, un’economia sana non può reggersi sullo sfruttamento: la stagnazione, le crisi, la povertà diffusa, sono conseguenze di questa scelta scellerata.
Le destrutturazioni possono essere fatte con successo quando il sistema è sotto controllo, cioè quando è in mano allo Stato e non al mercato, altrimenti si rischia di causare dannosi effetti collaterali.
- Aggiungo quella per cui, dall’alba del mondo,il lavoro sarebbe una condanna da cui affrancarsi. Perfino Dio, pare, si sia riposato il settimo giorno, dopo aver lavorato per sei! Tutti devono lavorare, nessuno, se non impossibilitato, deve vivere di rendita sul lavoro degli altri. E’ ingiusto e costringe ad una distribuzione del lavoro iniqua.
Il lavoro è partecipazione, dignità, contributo concreto al vivere comune, realizzazione personale e sociale, pieno sviluppo delle potenzialità di ciascuno, indifferentemente dalla classe di appartenenza. E’ progresso collettivo. La civiltà futura sarà segnata da come ci porremo rispetto al lavoro, dal senso sociale, politico ed economico che sapremo dargli.
Un cambio di paradigma è necessario.
Ed è questo il punto politico dirimente su cui fondare proposte di riforma per la società del XXI secolo e da cui discendono scelte politiche importanti, quali l’uscita del nostro paese dall’Unione Europea. Per questi scopi e con questo bagaglio di conoscenze teoriche è possibile e auspicabile iniziare un lavoro politico a livello nazionale e internazionale per un’uscita concordata all’insegna dei principi della Carta Costituzionale e di un neo-socialismo aggiornato alla fase attuale, ricordando che l’uscita non è punto nello spazio-tempo, ma un processo, e pertanto ha modalità di esecuzione che comportano effetti diversi e molto dipende dalle classi sociali di riferimento degli organi istituzionali in carica. Questo deve essere chiaro ai cittadini.
Chiara Zoccarato
Bibliografia
Mitchell Innes, Alfred “Che cos’è il denaro? La teoria creditizia della moneta” Edizioni Accademiche Italiane 2019
John F. Henry “The Rise of Money and Class Society” Levy Institute, WP 832 February 2015
Randall L. Wray “Understanding Modern Money” Edward Elgar 1998
Michael Hudson “Origins of Money and Interest: Palatial Credit, not Barter” 2017
David Graeber “Debito. I primi 5000 anni” Melville House 2011
Randall L. Wray “Demand Constraints and Big Government” Levy Institute WP 488, January 2007
Michael Hudson “The Road to Debt Deflation, Debt Peonage, and Neofeudalism” Levy Institute WP 708, February 2012
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