In questi giorni di grandi incertezze sento molti amici preoccupati che i governi possano approfittare della situazione per riacquistare un maggiore controllo sulla popolazione, che insomma possano “farsi prendere la mano” e instaurare delle dittature o simili sistemi di controllo orwelliano. Questa preoccupazione è principalmente dovuta al regime di quarantena imposto alla maggioranza della popolazione, all’utilizzo di nuove tecnologie per il controllo degli spostamenti, ma soprattutto a interventi di polizia francamente esagerati nei confronti di corridori solitari e passeggiatori di cani.
Ora, lungi da me dire che tale possibilità (nascita di dittature et similia) sia inesistente. Ma giungere a questa conclusione a partire da una limitazione della libertà di movimento imposta per motivi di sanità pubblica, peraltro previsti dalla costituzione, mi sembra davvero eccessivo. Già prima che scoppiasse la pandemia vivevamo in un regime di controllo ben più preoccupante: pochissime multinazionali private accumulano e gestiscono una quantità senza precedenti di dati e informazioni personali che gli garantiscono un potere sconfinato e lo fanno con l’unico scopo di trarne un profitto.
Su queste aziende noi cittadini non abbiamo alcun controllo nonostante incidano enormemente sulla nostra vita quotidiana e sul nostro sviluppo sociale, economico e persino storico. Molte di queste aziende sfruttano il proprio potere per non versare nemmeno i contributi nei paesi in cui esercitano le loro attività, che quindi hanno carattere sostanzialmente parassitario. I governi possono avere accesso ad alcune di queste informazioni solo in casi eccezionali, e mai gratuitamente.
Pochissime aziende decidono cosa possiamo comprare, chi possiamo votare, e quali informazioni possiamo conoscere.
Nonostante questa situazione distopica quasi tutti sembrano essersi arresi alla sua inevitabilità, quasi si trattasse di un fenomeno naturale come il trascorrere delle stagioni o la forza di gravità e non il risultato di precise scelte politiche ed equilibri di potere storicamente determinati.
Oggi, a fronte del fatto che il governo italiano decida di imporre alcune misure con lo scopo piuttosto trasparente di promuovere l’interesse collettivo (seppur con risultati altalenanti) in molti si attiva un atavico antistatalismo, quasi come un “senso di ragno”, o meglio, un riflesso condizionato che ci è stato inculcato in decenni di educazione liberale. Il timore che nasce nel subconscio collettivo è che l’intera faccenda costituirebbe un complotto, o comunque un pretesto per tornare a uno Stato dittatoriale.
Il fatto che un governo, alla cui costituzione abbiamo tutti partecipato in una qualche misura, istituisca obblighi e divieti che valgono per tutti in una situazione di oggettiva emergenza è percepito di per sé come più pericoloso rispetto alle imposizioni cui siamo soggetti quotidianamente da parte di sconosciuti azionisti e fumosi fondi di investimento privi di qualsiasi legittimazione democratica.
Paradossalmente tale istinto si attiva anche in individui che si riconoscono in orientamenti politici in teoria fortemente statalisti come il socialismo, la cui dottrina però è stata annacquata negli anni dalle categorie pseudo-anticapitalistiche di Foucault e dei suoi epigoni anarcoidi, che straparlano di biopolitica senza accorgersi che ormai da decenni il capitalismo è così interiorizzato dalla psiche collettiva da non richiedere più alcuna forma di coercizione per la sua riproduzione.
Episodi come quelli della polizia che bullizza gente per strada devono destare preoccupazione, ma non perché siano i segnali di una dittatura alle porte: essi sono al contrario esempi di uno Stato i cui margini di intervento sono stati talmente ridotti che può esibire la propria forza solo nei confronti dei più deboli, mentre i potenti continuano a fare quello che vogliono (ricordo che in Lombardia e Veneto il grosso delle fabbriche è ancora aperto per le pressioni degli industriali) e a prendere le decisioni che contano davvero.
Ciò che in molti sembrano non tenere in considerazione è che uno Stato, per essere realmente democratico, deve essere anche forte, cioè capace di imporre il risultato del proprio processo decisionale a tutti i soggetti che operano all’interno del proprio territorio e di difenderlo da ingerenze esterne. Certo la forza da sola non basta: il processo decisionale deve essere realmente democratico e l’attuale sistema rappresentativo mostra evidenti problemi tanto dal lato della partecipazione effettiva che della neutralità.
Non è infatti inopportuno notare come l’impostazione ordoliberale promossa dagli attuali trattati europei persegua l’asservimento sistematico dello Stato alle esigenze del mercato, ma non la sua cancellazione.
Migliorare il sistema elettorale e partitico è fondamentale e garantire che lo Stato sia guidato dalla sovranità popolare è necessario, altrimenti la forza pubblica manca di legittimità e anzi rischia di diventare uno strumento nelle mani di interessi particolari, ma pensare di risolvere la corruzione dello Stato diluendo il suo potere (o decentralizzandolo) avrà come unico risultato la perdita di effettività del potere politico nei confronti di quello economico.