Emerge in modo sempre più acuto e violento il conflitto su una polarità che speravo l’emergenza COVID-19 e le illuminazioni che ci aveva portato, avessero francamente spazzato via. Purtroppo, come temevo, ha prevalso l’abitudine e il maledetto desiderio di tornare nella comfort zone di ciascuna categoria sociale.
Invece che focalizzarsi sulla contrapposizione tra essenziale-non essenziale, Stato-Mercato, ristrutturazione vs ricostruzione di un sistema sbagliato dal punto di vista macroeconomico e sociale, che il lockdown aveva evidenziato, ci ritroviamo con bande di sciamannati che invocano il ritorno all’eterno scontro di matrice neoliberale tra tutelati e non tutelati. Il bersaglio diventa il posto fisso, questo feticcio morboso e puzzolente, che ci trasciniamo dietro dal trentennio glorioso! Un altro lo Stato, questo Leviatano insopportabile che si permette di tassare senza pietà e di non salvare tutte le attività economiche esistenti, non importa se appartengono a settori da smantellare, o in cui lo sfruttamento è all’ordine del giorno! Non sono permesse domande, pare.
È un conflitto pericoloso e senza senso.
Ritengo anch’io il posto fisso un feticcio, nessuno dovrebbe passare tutta la propria vita a fare lo stesso lavoro, magari per un’azienda che detesta, e credo sia opportuno che anche nel settore pubblico sia possibile licenziare, ma si deve e si può pretendere un lavoro garantito, sempre e comunque, da parte dello Stato. Non è quel posto, ma è comunque un posto.
Un’alternativa dignitosa e sostenibile. Un programma di lavoro pubblico, gestito a livello locale, per potersi prendere una pausa, per avere un rete di salvataggio se la mia impresa fallisce o perdo il lavoro da dipendente, per avere un lavoretto da fare part-time, il tutto ad un salario non di mera sopravvivenza ma di effettivo sostentamento, su cui il mercato non possa avere voce in capitolo.
Ritengo anch’io che le attività economiche private siano tassate in modo eccessivo e privo di una vera logica sottostante, e questo è molto grave. Il principio della tassazione deve essere quello di tassare ciò che è socialmente ed economicamente negativo o dannoso, e premiare ciò che è desiderabile. La pressione fiscale nel nostro paese attualmente è decisa su condizioni di sostenibilità dettate da un parametro, quello del bilancio della spesa pubblica, totalmente sbagliato dal punto di vista macroeconomico. Come diceva anche la buon’anima di Keynes, lo Stato deve guardare alla disoccupazione, il bilancio viene da sé, a consuntivo, e qualsiasi sia, deficit o surplus, va bene così. Si spende per il raggiungimento di precisi obiettivi di politica economica, quello che serve, dove serve. Non a pioggia, non come stimolo alla domanda in modo generico.
Ritengo pure che per l’attività privata il rischio d’impresa vada contemplato e valutato responsabilmente. Il rischio d’impresa ricade sull’imprenditore, non è un pacco che si smolla a destra e a manca. Fa parte proprio di quella libertà, di quel merito, che si invocano a squarciagola. Perché lo Stato dovrebbe salvare attività che si reggono su parametri anti-economici? Ci hai provato, non è andata. Ecco il tuo impiego pubblico a salario di dignità. Non morirai di fame, né lo farà la tua famiglia. Ripigliati, non ti abbandoniamo. C’è un’emergenza? Taglio le tasse, sostengo il reddito per un periodo limitato, intanto ristrutturo il sistema, nazionalizzo le attività essenziali, le altre no, organizzo dei programmi di lavoro ad hoc per l’evento. Possiamo salvare tutti, non possiamo salvare tutto.
Per farlo è necessario recuperare le leve della piena sovranità politica ed economica, tra cui quella monetaria, attualmente cedute agli organismi sovrannazionali dell’Unione Europea e sottoposte a vincoli stringenti. Ma perché ci sia un vero cambio di paradigma, dobbiamo ragionare su quale società vogliamo costruire.
La battaglia comune dei lavoratori deve essere per la garanzia di un’esistenza degna, all’interno di una società che si prende cura dei suoi cittadini e che distribuisce il lavoro da fare in modo intelligente, che non segue le logiche di mercato, ma quelle della necessità collettiva, implementando il settore pubblico, nel welfare e nei settori strategici. Dove esiste un lavoro garantito e sensato contro precarietà, ricatto, disoccupazione, shit jobs e tutti sono tutelati.
L’ebbrezza del rischio viene lasciata a chi vuole dimostrare qualcosa a sé stesso e agli altri, ma con una rete di salvezza che gli impedisca di farsi troppo male. Certo, ne verrebbe a risentire la mitologia eroica degli ultimi decenni, da cui gli imprenditori hanno introiettato tratti antropologici talvolta perversi (vedi “Sovereigns of Risk: The Birth of the Ontopreneur” di Andrew Pendakis)
Sono convinta che moltissimi autonomi per forza, quelli che hanno dovuto inventarsi un lavoro perché non avevano alternative o hanno dovuto rassegnarsi ad aprire una finta partita iva, siano arcistufi di avere esistenze precarie.
Mentre altri, intossicati fino al midollo da certi veleni ideologici, preferiranno continuare a sfidare il mondo, la società, lo Stato. Liberi di farlo. Ma non devono dare la colpa ad altri se falliscono. Né chiedere soldi pubblici per il loro interesse, senza condizioni. Né prendersela con chi preferisce un’esistenza tranquilla, una vita semplice, perfino noiosa, fatta di affetti familiari e tempi di lavoro certi per poterla organizzare, piccole passioni e beato anonimato.
I diritti sono conquiste importanti. Dobbiamo tutti chiedere e partecipare ad uno Stato che si occupi della prosperità e della sicurezza sociale. Non spacchiamo il fronte dei lavoratori.