un articolo di Vito Pezzella

Un recente atto normativo (Decreto-Legge 44/2021) contiene, tra le altre cose, una riforma per l’accesso ai concorsi pubblici promossa dal ministro della pubblica amministrazione Renato Brunetta. Scopo dichiarato della riforma è quello di ridurre i tempi di reclutamento e di semplificare le procedure concorsuali sospese a causa dell’emergenza pandemica. A dire il vero, sotto la superficie della contingenza pandemica, come vedremo, c’è molto di cui preoccuparsi. L’intervento legislativo che ci accingiamo ad esaminare realizza un’ulteriore mortificazione della possibilità di accedere ad un pubblico impiego.

Come tutti ben sappiamo, agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi previsti dalla legge. I nostri Costituenti si preoccuparono di sancire che tutti i cittadini, dell’uno o dell’altro sesso, potessero accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, salvo appunto i casi previsti dalla legge (si veda l’art. 51 della Costituzione). Pertanto, il concorso pubblico è la forma generale ed ordinaria di reclutamento per il pubblico impiego, derogabile solo in presenza di particolari ragioni giustificatrici. 

La principale novità della riforma (si vedano gli articoli 10 e 11 del decreto-legge 44/2021) attiene allo stravolgimento delle procedure di selezione. Fino ad oggi, nelle procedure di selezione la fase preselettiva (fase eventuale, pertanto non prevista per tutti i concorsi pubblici, ma solo per quelle selezioni in cui partecipano molti candidati) è stata caratterizzata dallo svolgimento di quiz a risposta multipla. La nuova modalità di preselezione prevista dalla riforma mette in soffitta i quiz a risposta multipla sostituendoli con “una fase di valutazione dei titoli legalmente riconosciuti ai fini dell’ammissione alle successive fasi concorsuali”. 

Molte polemiche, giustamente, ha scatenato tale cambiamento nelle procedure di selezione.

Per molti, la preselezione basata soltanto sui titoli si tradurrà inevitabilmente in una insormontabile barriera: si troveranno infatti ad accedere ai concorsi pubblici solo coloro che sono in possesso dei titoli richiesti dalle amministrazioni pubbliche che bandiscono i concorsi. Potrebbe, ad esempio, essere imposto un master o un altro titolo di studio post laurea (si pensi al dottorato). E cosa succede a chi non ne è in possesso perché, per dirne una, non può permetterselo? Si dimentichi di poter partecipare ai concorsi pubblici.

Chi va a colpire dunque questa riforma? Sicuramente una significativa quota dei giovani neolaureati, che non potranno permettersi di pagare le costose quote di iscrizione previste per i master, ma anche disoccupati e precari. Il muro si innalza sin dalla pubblicazione del bando di concorso; per tanti, per troppi, la possibilità di accedere al pubblico impiego è negata fin dall’inizio. E i pubblici uffici, da luoghi aperti a persone provenienti da strati sociali diversi, non potranno che trasformarsi in cricche elitarie, dove le classi popolari non possono – e non devono – entrare.

È palese che la possibilità di accedere agli uffici pubblici non avverrà in condizioni di eguaglianza: ai meno abbienti sarà impedito di fatto di entrare nelle istituzioni repubblicane e di partecipare effettivamente all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. 

A questo proposito, non deve essere taciuto che l’offensiva del ministro Brunetta è parte di un più ampio attacco alla pubblica amministrazione portato avanti da almeno trent’anni. Si pensi ai blocchi del turn over, alla moderazione salariale e alla crescita rapida dei rapporti di lavoro precari (spesso e volentieri i nuovi assunti sono inquadrati con contratti di lavoro a tempo determinato) adoperati come armi di contenimento della spesa. Alla faccia dei privilegi e del tanto sbandierato posto fisso, così vituperato dai grandi media in questi decenni. Sino ad oggi, la porta del lavoro pubblico è stata tenuta socchiusa; d’ora in poi, potrebbe essere definitivamente serrata. 

Il timore che si tratti di una riforma non temporanea ma di carattere strutturale non è da escludere, nonostante essa sia formalmente adoperata per sbloccare i concorsi sospesi a causa dell’emergenza pandemica. Si pensi che la preselezione basata esclusivamente sui titoli legalmente riconosciuti può essere applicata non solo ai concorsi banditi dopo il 1º aprile 2021 (data di entrata in vigore del decreto), ma anche per le procedure per le quali non sia stata svolta nessuna attività.

Per essere più concreti, può accadere che per un concorso pubblico bandito prima del 1º aprile 2021 (si ipotizzi nel 2019), nel caso in cui l’amministrazione decidesse di applicare la disciplina, migliaia di persone – regolarmente iscritte e già impegnate nella preparazione dell’esame – potrebbero comunque risultare escluse per mancanza dei requisiti necessari. 

Questa riforma, come spesso succede, ha già innescato falsi conflitti. Si prenda a titolo di esempio l’articolo di due noti liberisti (Boeri e Perotti) per il quotidiano la Repubblica del 9 aprile 2021, ove criticano la riforma perché favorirebbe la stabilizzazione dei precari a discapito dei giovani a cui viene sottratta la possibilità di fare ingresso nel pubblico impiego. Ovviamente nulla obiettano sulla fase preselettiva, basata sulla sola valutazione dei titoli. Ecco all’opera la retorica del conflitto tra i più giovani (disoccupati) e più anziani (precari) adoperata per dividere i ceti che vivono del proprio lavoro. 

È palese che non si tratta di interessi contrapposti ma convergenti. Il vero conflitto è contro chi nel corso dei decenni ha tagliato i posti di lavoro nel comparto pubblico e, contemporaneamente, aumentato il ricorso ai contratti di lavoro precari. Il vero conflitto è contro chi con il blocco del turn over ha impedito, anche ai più giovani, l’ingresso nel pubblico impiego, alimentando un’opposizione intergenerazionale del tutto fittizia. È soltanto con la presa di coscienza della vera natura del conflitto che può germinare e crescere la nostra forza.