di Riccardo Bernini
In una guerra, creare generale consenso attorno alla propria “narrazione” è assai importante. In alcuni casi può servire, anche stimolando risposte emozionali, a smuovere verso decisioni politiche, che impattano direttamente sull’andamento delle operazioni militari. In altri, a diffondere un messaggio ideologico di base.
Infatti, Lyudmila Denisova (1) rimossa dal Parlamento di Kiev dall’incarico di commissaria ucraina preposta alle indagini sulle violazione dei diritti umani, a sua difesa ha portato un argomento per lei dirimente: il risultato conseguito. Nel corso della sua missione in Italia, grazie ai “toni forti”, ossia alla forzatura dei fatti (supposti crimini dell’esercito russo) esposti davanti alla Commissione parlamentare per gli affari internazionali, dice di aver “convinto” anche i riottosi pentastellati ad acconsentire all’invio di armi all’Ucraina. (2)
Morale: ogni bugia è buona, purché consegua l’obiettivo utile.
Su questa vicenda può sorgere un dubbio: è stata l’intensa emozione suscitata dalle narrazioni della Denisova a far cambiare parere i pentastellati, oppure tutti i decisori lì presenti avevano bisogno di giustificazioni “forti” per avallare ciò che la maggioranza popolare mostra di non accettare? Come, d’altro canto, si può dubitare che tra i reali motivi della defenestrazione di Denisova vi sia «un’incomprensibile attenzione a dettagli di crimini sessuali e stupri di bambini nei territori occupati, che non sono stati provati», come ha spiegato Pavel Frolov, parlamentare del presidente Servitore del popolo. Un atteggiamento che avrebbe finito per «danneggiare l’Ucraina, distogliendo l’attenzione dei media internazionali dai reali bisogni del Paese». (3)
È pur vero che Lyudmila Denisova, non si è limitata ad esagerare, visto che il 18 maggio raccontava ai media internazionali di «43 mila crimini di guerra russi». O quando il 23 maggio su Telegram scriveva: «Due ragazze di 12 e 15 anni sono state violentate da razzisti, una bambina di 6 mesi è stata violentata da un russo con un cucchiaino…». (4)
Qualora le denunce di tutti i crimini russi “non provati” comportassero la rimozione dall’incarico di chi le ha lanciate, l’apparato ucraino addetto alla guerra mediatica ne risulterebbe alquanto sfoltito. Viste le “prove” dei crimini di Bucha5 offerte al mondo. Anche le denunce di Kateryna Levchenko, militante femminista e deputata, dal 2018 Commissaria del Governo per le politiche di eguaglianza di genere, dovrebbero essere sottoposta a fact-checking.
In una intervista (6) adombra il sospetto di un genocidio del popolo ucraino, pur ammettendo che saranno le inchieste (condotte da chi?) a stabilire se ci sia effettivamente stato e molto complicato provarlo sul piano giuridico. Nel caso della Levchenko, tuttavia, le accuse di stupri indiscriminati, rivolte ai soldati russi, vanno ben oltre l’”utilitarismo” in stile Denisova, giacché si intrecciano con una definizione dell’obiettivo strategico perseguito dal crimine sistematico e con un’analisi delle sue radici ideologiche e culturali.
D’acchito assistiamo ad un rovesciamento. Mentre fino all’invasione di febbraio tutte le fonti internazionali denunciavano un’aggressione ucraina alle popolazioni delle aree russofone – Donbass ed Odessa -, apprendiamo dalla Levchenko che, al contrario: «I russi hanno cominciato a ricorrere allo stupro nel 2014, all’inizio della guerra nel Donbass, ma non in modo sistematico, come fanno oggi. Dal 24 febbraio, lo stupro è diventato un’arma quotidiana, come tante altre. (…) Stuprando le donne ucraine, è come se l’esercito russo violentasse tutta la società ucraina e il suo popolo. »
Poiché le regioni coinvolte nello scontro bellico erano e sono abitate da popolazioni russe, come è possibile che gli stupri fossero perpetrati a danno delle “donne ucraine”? Pure su Wikipedia, (7) prima della “sbianchettatura”, era chiaro quanto è successo il 2 maggio 2014 alla Casa dei sindacati di Odessa, ad opera dei neo-nazisti banderani.
Sorprendente il successivo passo dell’intervista: «L’obiettivo è umiliare, dominare attraverso il terrore, ma anche minare la capacità di una nazione di riprodursi.» È indubitabile che, indipendentemente da chi lo compie, lo stupro sistematico di guerra sia diretto ad umiliare e terrorizzare, tramite la riduzione a corpo schiavo delle donne, tutta la popolazione a cui quelle donne appartengono.
Ma cosa significa quel “minare la capacità di una nazione di riprodursi”? La nazione ucraina sarebbe – e non trovo altra spiegazione plausibile – “imbastardita” dal seme russo e, dunque, minata nella sua capacità di riprodursi in modo geneticamente puro? Sarebbe una riedizione dell’idea nazista della purezza riproduttiva della stirpe nazionale. Benché chi compie il crimine possa essere animato da questa intenzione “minatoria”, dalla precedente esperienza nella guerra jugoslava (e non solo) è emerso che lo scopo dello stupro sistematico in un conflitto inter-etnico consista in altro: «La pratica dell’obiettivo della patria etnica non può che comportare la pratica della pulizia etnica e dello stupro etnico, per recintare nel sangue lo spazio di assoluto dominio e rifondare da esso il “nuovo ordinamento”.
L’infame potenza dell’impotenza, costitutiva dello stupro, qui si scatena sul corpo della donna per distruggervi l’anima stessa della convivenza passata e futura, di cui la donna è portatrice e generatrice.
Il corpo schiavo della donna diviene così il corpo schiavo di tutta una umanità calpestata e soggiogata per distruggere ogni possibile vita comune delle diversità.
Attraverso la violenza dell’uomo sulla donna, si concentra e passa tutta la violenza del farsi Stato, tutta la esclusività e separatezza dei nuovi acclamati soggetti della storia dell’Est. E, non a caso, le violenze hanno colpito per tutto un periodo iniziale proprio coloro che non si identificavano etnicamente, famiglie miste o che avevano voluto smarrire con l’identità anche l’odio e la divisione tra le genti. (…) il ricorso alla violenza sessuale assume il duplice ruolo politico di mezzo terroristico di epurazione ed azione distruttiva finale di ogni possibile ritorno alla convivenza/ condivisione territoriale.» (8)
Eccoci dunque al punto: quale parte politica si è opposta alla convivenza inter-etnica ed alla condivisione territoriale tra ucrainofoni e russofoni nello stesso Stato? Chi ha scatenato lo scontro, negando ai russofoni il diritto a vedere riconosciuta pari dignità alla propria lingua e cultura?
Imputare poi, come fa Kateryna Levchenko, ad una “specificità russa” o del “mondo russo” l’attitudine “impunita” al crimine di stupro, completa la sua sostanziale adesione ideologica al razzismo anti-russo. Aspetto, quest’ultimo, che qualifica la costruzione dell’attuale Stato ucraino come Patria etnica, molto più importante della presenza fisica, pur alquanto inquietante, dei battaglioni neonazisti nelle file dell’esercito di Kiev.
È a questa bella costruzione “democratica” che l’Occidente e l’Italia di Draghi prestano aiuto. È in questo modo di farsi Stato dei suoi nuovi componenti, già sperimentata nella voluta disgregazione della Jugoslavia, che la stessa Unione europea si costruisce, negando alla radice il motivo per cui dice di essere nata: come in Grecia, combatte la sovranità nazionale democratica; come in Ucraina, appoggia il nazionalismo etnico, fascistizzante, passatista, regressivo ed aggressivo.
Note
1. Nel 2014 Ministra del Lavoro nel governo Jacenjuk, nato a seguito del colpo di Stato detto di “Euromaidan”.
2. Sabrina Provenzani, “Denuncia in Italia i crimini dei russi per avere più armi”, Il Fatto Quotidiano,
11/06/2022.
6. Intervista di Mediapart a Kateryna Levchenko, “Lo stupro come arma di guerra: e la Russia lo sta usando”, il Fatto Quotidiano del 23/05/2022.
7. https://it.wikipedia.org/wiki/Strage_di_Odessa#:~:text=La%20strage%20di%20Odessa %20%C3%A8,opponevano %20al%20nuovo %20governo%20instauratosi [poi sbianchettato per
supportare la narrazione anti-russa].
8. Riccardo Bernini, “Jugoslavia: una guerra europea”, I dossier del CESPI N. 4, seconda edizione, dicembre 1995.